Francia e Germania nel mirino di Marchionne

Ecco la domanda che gli operai della Fiat si pongono in questo momento: «Come farà Sergio Marchionne ad aumentarci il salario, portandolo ai livelli dei colleghi tedeschi?». L’amministratore delegato della Fiat ha chiaramanto detto che, una volta in grado di competere con i Paesi vicini, le buste paga delle tute blu torinesi saranno più pesanti: da 1.300 a 2.000 euro netti, più meno la paga che percepisce un operaio tedesco.
La sfida, dunque, è partita almeno nelle intenzioni, visto che il 4 novembre ci sarà l’incontro tra il top manager e il neoministro allo Sviluppo economico, Paolo Romani, a cui seguirà la corsa finale agli accordi per far decollare Fabbrica Italia. Sono due le parole sulle quali Marchionne insisterà nei prossimi giorni: produttività e saturazione, entrambe legate a doppio filo con la prospettata maggiore soddisfazione economica dei lavoratori. «L’incremento della produttività, ovvero la riduzione delle ore impiegate per realizzare un’auto - spiega Andrea Alghisi, director di AlixPartners - è una leva fondamentale per un’azienda, insieme però ad altre, quali a esempio la saturazione della capacità produttiva. Se aumenta il numero di vetture prodotte si ammortizzano i costi e gli investimenti. E a beneficiarne è la redditività del gruppo industriale. Ma per avere la necessaria produttività e la saturazione ottimale, quello che in pratica chiede Marchionne, occorre l’accordo con la forza lavoro sulla flessibilità e la condivisione dei target produttivi».
Il capo della Fiat ha fretta e mette fretta alle parti sociali (una decisione dovrà essere presa prima di Natale). All’orizzonte, infatti, si profila una scadenza: il 2013, anno nel quale le case automobilistiche più virtuose dovrebbero ritrovare l’equilibrio tra produttività e saturazione. Nel suo annuale «Automotive study», AlixPartners sottolinea gli effetti della economica del 2009: rispetto al 2007, anno nel quale la saturazione della capacità produttiva era a livello mondiale intorno all’83%, l’utilizzazione delle fabbriche è scesa al 65% con pesanti ripercussioni per la redditività delle aziende. «Ci vorranno almeno due o tre anni - precisa Alghisi - per tornare a livelli accettabili».
Da qui l’importanza di chiudere quanto prima il discorso sulla flessibilità anche perché, come osserva Paolo Pirani, segretario confederale della Uil, «i lavoratori devono rendersi conto che l’accordo firmato per Pomigliano d’Arco è sicuramente premiante: non dimentichiamo, al riguardo, che negli Stati Uniti il sindacato Uaw, quello della Chrysler, ha accettato la riduzione del salario orario (2.400 euro al mese per 40 ore settimanali) oltre al blocco degli scioperi fino al 2015». «Da noi, invece - continua Pirani - è previsto l’aumento degli stipendi fino a 4.000 euro lordi l’anno, un accordo che a Detroit ci invidiano. Ritengo quindi fuori luogo tutto questo dibattito in Italia».
Marchionne, nel commentare la scorsa settimana la terza trimestrale del Lingotto, ha detto una cosa nuova, cioè che il gruppo deve guardarsi soprattutto da chi gli sta vicino: i concorrenti europei. Pur tenendo ben presente che sarà la Cina il ring dentro il quale si misureranno sempre più i costruttori (Daimler ha appena annunciato nuovi investimenti per 3 miliardi), il nemico è dietro l’angolo e si chiama Francia (il gruppo Psa Peugeot Citroën, archiviato il terzo trimestre con dati sopra le attese, ha rivisto al rialzo gli obiettivi dell’anno) e Germania (Volkswagen ha più che decuplicato nel trimestre gli utili, con vendite record tra gennaio e settembre, e punta a diventare il primo produttore mondiale nel 2018). Berlino, in particolare, rappresenta il modello a cui guardare, la base per costruire un rapporto nuovo e collaborativo con la forza lavoro grazie al quale il maggior produttore locale, il gruppo Volkswagen, in pochi anni ha trovato la formula per presentarsi all’appuntamento con il 2011 in forma smagliante. Merito della riorganizzazione del lavoro e di un sindacato concreto e lungimirante.
Essere competitivi rispetto agli agguerriti vicini di casa per combatterli ad armi pari, significa, per Marchionne, poter contare su un sistema Paese pronto ad accogliere con benevolenza la volontà di un grande gruppo di sviluppare i propri impianti staccando un assegno di 20 miliardi. Prendiamo la Serbia, che ha subito approfittato della querelle in Italia, per «scippare» a Mirafiori uno dei nuovi modelli.

Qui le discussioni hanno lasciato il posto ai fatti, tanto che negli ultimi dieci anni il maggior volume di investimenti è arrivato proprio dall’Italia: 2 miliardi di euro, di cui 940 milioni da Torino. Denaro che, forse, poteva essere dirottato nel potenziamanto di un impianto del nostro Paese. Occasione persa, l’auspicio è che non ne seguanono altre.

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