In Francia la Giustizia sbaglia. E paga il conto

Vicende emblematiche: dal muratore milanese a cui è stata tolta la figlia di 6 anni alla somala mandata a S.Vittore per traffico di bambini

Stefano Zurlo

da Milano

In Francia il caso Burgaud è un dramma nazionale. Fabrice Burgaud, 34 anni, giudice, è il protagonista del più grave deragliamento della giustizia transalpina. Tredici persone accusate di pedofilia, passate attraverso tutte le umiliazioni possibili e infine assolte da ogni accusa dopo aver scontato fino a quattro anni di carcere. In questi giorni il racconto di Burgaud, trasmesso dalla sede solenne dell’Assemblea Nazionale, riempie i palinsesti di sei reti nazionali e incolla milioni di persone davanti agli schermi.
In Italia questa udienza collettiva, questo choc nazionale, sarebbe semplicemente impensabile. Per carità, la stragrande maggioranza delle toghe lavora bene e con professionalità. Il punto è che raramente i magistrati davanti a uno sbaglio chiedono scusa. Anzi, il più delle volte gli errori, anche quelli causati da superficialità e sciatteria, restano orfani di padre. Il sistema li metabolizza tranquillamente, anche se le ferite si cicatrizzano con molta lentezza. E avanzamenti in carriera e promozioni non vengono rallentati da scivoloni sconvolgenti. In Italia poi è sempre difficile capire di chi è la colpa, o se si vuole, la responsabilità. È stato il Pm? O forse il gip? O il tribunale? O un girotondo di magistrati?
Certe storie mettono i brividi. Anche a distanza di anni. Storie che appaiono incredibili dall’inizio alla fine. Prendiamo il povero Salvatore L., muratore milanese, felicemente sposato e padre di due figli. Il 24 novembre 1995 gli portano via la bambina di 6 anni. Il motivo? Contro Salvatore ci sono le accuse infamanti di una cugina. E allora si comincia a esplorare tutto il perimetro familiare.
Come? Si dà una matita alla piccina. Lei disegna un fantasma. L’interpretazione degli esperti è netta: in realtà quelle linee rivelano un simbolo fallico. La spia di un malessere profondo. Salvatore viene arrestato all’inizio del ’96 su richiesta del pm Pietro Forno. In primo grado viene condannato a 13 anni. Una mazzata. Poi, in appello, l’accusa si sfascia: dopo 2 anni, 4 mesi e 2 giorni di carcere l’uomo viene liberato. E infine assolto. È stato vittima di un errore. Spaventoso. La giustizia però non ha alcuna intenzione di arrossire e di inchinarsi davanti a una famiglia affondata da una vicenda devastante. Anzi, accade qualcosa di semplicemente inspiegabile. E inaccettabile. Il tribunale per i minori di Milano ha ormai imboccato la strada dell’adottabilità. La figlia di Salvatore ha già un’altra famiglia. E nessuno vuole più tornare indietro. Il lettore ha già compreso il finale diabolico. Tribunale per i minori, Corte d’appello e Cassazione, in fotocopia l’uno sull’altro, stabiliscono che la ragazza non tornerà più a casa. O meglio, potrà farlo, se vorrà, il giorno del diciottesimo compleanno. «Aspetto quel giorno con ansia - racconta Salvatore - sento che si avvicina, ormai non manca molto, una decina di mesi. Ma la nostra vita è stata rovinata».
La cronaca, per quanto sobria, impone un nota bene. Forno è il Pm protagonista di un altro caso clamoroso, esploso sui giornali nel 2000, più o meno nello stesso periodo in cui troviamo le coordinate della storia di Salvatore. Forno mette sotto inchiesta un taxista milanese, Marino V.: anche lui avrebbe abusato della figlioletta. Questa volta il trattamento è più soft: la minore viene tolta alla famiglia, ma il padre schiva almeno la galera. È la conclusione a sorprendere: in aula non va Forno ma la collega Tiziana Siciliano. E la Siciliano chiede l’assoluzione del taxista, trasformando la sua requisitoria in un attacco a consulenti ed esperti vari. Colpevoli di aver agito con una superficialità disarmante se non in malafede.
E poi? E poi niente. Anzi, Marino e la moglie devono penare e lottare con le unghie per riavere la figlia che sta per essere inghiottita nella voragine dell’adottabilità. E la Siciliano deve giustificare il proprio operato in una sorta di procedimento predisciplinare che, per fortuna, si chiude rapidamente. Forno? Oggi è procuratore aggiunto a Torino.
Difficile individuare le responsabilità. Come insegna Sharifa, profuga somala e madre disperata: viene fermata dalla polizia a Linate con due bambini. Si ipotizza che la povera extracomunitaria e il cognato siano una coppia di mercanti di minori. Senza scrupoli. Il Pm è Ilda Boccassini che certo fa fatica a colloquiare con questa donna che si esprime in un dialetto quasi intraducibile. Il gip la parcheggia in carcere. Il fascicolo, complice l’estate, rallenta, anzi si perde per qualche settimana. Lei è sempre a San Vittore, quasi smette di mangiare e finisce all’ospedale; il maschio e la femminuccia sono in istituto. Dopo sei mesi i termini di custodia finalmente scadono. Sharifa esce e il test del Dna, quel test che la Boccassini sostiene di aver chiesto dall’inizio, riconosce la verità: Sharifa è la mamma di Abdul e la zia di Amina. Siamo al lieto fine.

E all’interpretazione di Francesco Saverio Borrelli. Planetaria: «Sharifa si è affacciata dalle profondità della storia, se non della preistoria». Meglio cercare la chiave dell’errore a qualche migliaio di chilometri di distanza.

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