Cronaca locale

FRANCO LOI La vita vera è nelle «Voci d’osteria»

«Per anni sono andato in giro col registratore e col taccuino»

Quando Franco Loi arrivò a Milano, nel ’37, da Genova, dove era nato, aveva sette anni. I suoi genitori presero una camera ammobiliata in via Cardano, zona Stazione Centrale, e anche la seconda casa era vicino a una stazione, in piazza Bottini, a Lambrate, perché il padre era ferroviere e così era più vicino al lavoro. «Da allora avrò cambiato sei o sette appartamenti, ma da Milano non me ne sono più andato via. È questa città la mia vera casa».
A Milano Franco Loi ha studiato (ragioneria alle serali e poi qualche anno alla Bocconi), ha lavorato (a 16 anni era manovale allo scalo merci con il padre), ha fatto politica (a lungo militante nel Pci) ed è entrato nel mondo della cultura: poco più che ventenne “rischia” di pubblicare un romanzo nei Gettoni di Elio Vittorini («erano i primi anni Cinquanta, e gli feci leggere il libro, la storia di mio padre, medaglia d’oro della Resistenza, e lui se ne innamorò: mi chiese solo di correggere alcune cose e tagliare delle pagine, io invece, non so perché, lo riscrissi completamente... “Lei è matto, ma cosa ha fatto?”, mi disse quando glielo riportai. Dopo non se ne fece più niente... ») e poi, nel ’60, è assunto all’ufficio stampa della Mondadori (dove rimarrà fino all’83). È qui che conosce Vittorio Sereni, l’uomo che gli ha cambiato la vita. «Venne a sapere, non so come, che scrivevo poesie. Un giorno mi chiama e mi dice: “Ma come, è dieci anni che lavoriamo insieme e non me l’ha mai detto? Forse non ha stima di me? Me le porti domani”. Così feci, era un venerdì. Al lunedì mattina lo trovai sulla porta del mio ufficio, che mi aspettava. Non disse niente e mi abbracciò».
Fu proprio Sereni, anche se non lo confessò mai, a spingere la pubblicazione del primo volume di poesie di Loi, I cart, stampato dalla Galleria Trentadue di Milano. È il 1973 e Franco Loi - questo sì è davvero rivoluzionario - le sue poesie le scrive in dialetto, come poi ha continuato a fare per tutta la vita. «All’inizio scrissi qualcosa in italiano, ma poi stracciai tutto. Quando usai per la prima volta il dialetto milanese, capii esattamente cosa significa fare poesia. O meglio: scoprendo una lingua, ho scoperto la Poesia». Che poi il dialetto di Loi non è nemmeno quello milanese in senso stretto, per lo meno non è il dialetto meneghino della tradizione, è qualcosa di diverso, è il dialetto parlato da quelli che come lui a Milano non ci sono nati ma ci sono arrivati, e lo hanno “imbastardito” con parole della loro terra, con termini inventati, italianismi, espressioni gergali... «È un idioma nato dalla mescolanza della lingua locale con quella dei “nuovi venuti”. È la lingua che mi sono trovato dentro».
In quella lingua che si è trovato dentro, Franco Loi dopo quei primi versi ha pubblicato moltissimo, sempre legando il suo mondo poetico alla sua città - ad esempio Stròlegh con un’introduzione di Fortini, nel ’75, L’angel nell’81, una Antologia personale nel ’92 - fino a questo suo nuovo libro, Voci d’osteria (Mondadori, pagg. 152, euro 12), più di 120 brevi poesie che raccontano un mondo «a parte» che Loi ha sempre frequentato (e continua a frequentare, anche se diventa sempre più piccolo) ascoltando le voci e prendendo appunti: «Per anni sono andato in giro con il registratore o un taccuino in tasca, e quando sentivo qualcuno parlare in dialetto mi avvicinavo, gli facevo delle domande, mi mettevo a chiacchierare, e poi a casa trascrivevo tutto, mettendolo in poesia».
È così che è nato questo libro, nelle osterie milanesi di una volta, nelle vecchie sezioni del Pci, per strada, sui tram, nelle sale d’attesa degli ospedali, nei negozi, ovunque ci fosse qualcuno capace di parlare ancora il dialetto, una lingua dotata di una straordinaria capacità di cogliere il carattere degli uomini e il senso della vita (Per vèss inteligent ghe vör tri ròbb: / galera, uspedâ, püttan in câ. / El rest l’è vèss cujun del magnà tropp, recita una poesia). «La gente dice cose straordinarie senza magari rendersene conto: a volte dolcissime, altre feroci, e le dice in un modo, il dialetto, che è impossibile rendere in italiano con la stessa efficacia. È una lingua che si sente sempre di meno, ma che vive ancora, in maniera sotterranea e imprevista, in qualche antica famiglia, a volte addirittura riaffiora in bocca ai nuovi immigrati. Purtroppo non tra le nostre giovani generazioni che di sicuro non parleranno in dialetto con i loro figli...

Sì, temo siamo vicini al disastro».

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