La frase sui pm rossi scatena le toghe «Accusa inaccettabile tra noi anche martiri»

MilanoFra pochi giorni saranno quindici anni. Era il novembre ’94 quando il Pool di Milano lanciò, come un missile, il primo invito a comparire contro Silvio Berlusconi. L’altra sera, con una telefonata a Ballarò, il premier se l’è presa con i «Pm comunisti». Il mese d’ottobre, del resto, l’ha vissuto in stato di assedio. O, se si preferisce, come un ritorno al passato. Sì, perché il Pool è solo una foto ricordo e Mani pulite si trova già nei libri di storia. Non importa, processi, inchieste, sentenze si susseguono senza soluzione di continuità. In pochi giorni, la fragilissima tregua sulla giustizia è venuta giù come un castello di sabbia. A Roma la Consulta ha fatto a pezzi il Lodo Alfano, a Milano il giudice Raimondo Mesiano ha mandato al tappeto la Fininvest attribuendo alla Cir di Carlo De Benedetti un risarcimento di 750 milioni di euro, sempre a Milano è arrivata la condanna sprint di David Mills, nel dibattimento in cui il convitato di pietra, tanto per cambiare, è Silvio Berlusconi. Lui è sempre lì: la prima linea non può smobilitare.
E la magistratura, già sul piede di guerra per il caso Mesiano, torna alla carica e risponde colpo su colpo al premier. «Non possiamo assuefarci ad accuse inaccettabili, come quelle che la magistratura sia eversiva o anomala», dice da Roma il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara. Palamara annuncia che oggi sarà a Milano. Si terranno assemblee di protesta in tutta Italia, il partito dei giudici pianterà le sue bandierine in tutto lo Stivale, ma Palamara parteciperà all’happening di rito ambrosiano. E da Milano il Procuratore aggiunto Alfredo Robledo, titolare in passato di alcuni fascicoli relativi al Cavaliere, risponde pure sul versante cromatico alle accuse telefoniche formulate a Ballarò: «Se le nostre toghe sono rosse, lo sono per il sangue versato dai magistrati».
C’è aria di tempesta nel cielo della magistratura. Il dialogo con il premier, ormai, è interrotto e del resto gli appelli a Napolitano, sottoscritti dalle toghe, parlano chiaro: è sua e solo sua, per l’Anm, la responsabilità del clima di cannibalismo istituzionale che si respira nel Paese.
È il giorno in cui Angelino Alfano presenta in Consiglio dei ministri il decreto sulla mediazione civile, un assaggio di altri interventi, ben più corposi. Ma, ormai, alle riforme condivise non crede più nessuno. Si faranno, se si faranno, senza aspettare il consenso dei magistrati che tanto non arriverà. Loro, le toghe, parlano di sciopero, sfoggiano il calzino turchese, alla Mesiano, ormai elevato a gadget di resistenza civile, scrivono al presidente Napolitano invocando la sua scomunica sul Cavaliere. E firmano comunicati affilati come coltelli. «Ogni occasione - si legge in una nota dei vertici dell’Anm - sembra buona per denigrare l’ordine giudiziario e descrivere i palazzi di giustizia come sezioni di partito, frequentate da magistrati militanti. Nessun ufficio merita queste infondate e ridicole definizioni, tanto meno quello di Milano». «E infatti - replica Alfano - nessuno lo ha mai detto». Ma è tutto il fronte ad essere in fibrillazione. Anche il Csm indossa l’elmetto.

Solo una settimana fa, Palazzo dei Marescialli aveva varato una pratica a tutela del giudice Mesiano, «spiato e pedinato dalle televisioni del premier con chiaro intento intimidatorio». Ora, si prepara il bis, sulla telefonata a Ballarò. La tregua è finita.

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