Se chiudiamo gli occhi e proviamo a immaginare Sigmund Freud, il celeberrimo padre della psicanalisi, viene spontaneo vederlo seduto nel suo studio viennese, gambe accavallate, taccuino in mano, sguardo profondo, mentre ascolta attentamente un paziente sdraiato su un lettino strofinandosi di tanto in tanto la folta barba. Ma possiamo farci anche altre immagini di Freud molto diverse, più vitali ed emozionanti, se soltanto allarghiamo di poco la visuale e ci soffermiamo per qualche istante a osservare gli oggetti che arredano quello studio: statuette, vasi, rilievi, tavolette, contenitori. Tutti reperti antichi, tutti acquistati nel corso degli anni dal genio soprannominato «la sfinge di Vienna», grande appassionato di viaggi e di archeologia. Alcuni di quegli oggetti - conservati nei Musei Sigmund Freud di Vienna e di Londra - saranno esposti al castello di Gorizia nella mostra «Sigmund Freud nella terra dei sogni. Il viaggiatore, il collezionista» dal 25 giugno all1 ottobre.
La terra dei sogni menzionata nel titolo è lItalia. Tra il 1895 e il 1913, il viaggiatore mitteleuropeo memore del Gran Tour affrontato e raccontato da molti intellettuali suoi conterranei negli ultimi centocinquantanni, valicò per quindici volte le Alpi e percorse in lungo e in largo il nostro Paese. Unimpresa, va ricordato, che se in quegli anni non era certo altrettanto disagevole e pericolosa quanto ai tempi di illustri predecessori come Goethe, di certo non era nemmeno agevole quanto lo è oggi.
Ad accompagnarlo cerano la moglie Martha, la figlia Anna, il fratello Alexander, amici e colleghi come Sandor Ferenczi, nonché la guida Baedeker su cui studiava accuratamente gli itinerari prima di mettersi in viaggio. A spingerlo erano molteplici ragioni, non ultima la ripugnanza per Vienna, la città che, pur essendo percorsa da un incredibile fermento artistico, letterario, filosofico - si pensi solo a scrittori come Hugo von Hoffmansthal e Karl Kraus e al pittore Egon Schiele - si dimostrava più ostile nei confronti delle sue ricerche pionieristiche. Rispettando, in questo, lantico detto «nemo propheta in patria».
Ma la spinta maggiore era lamore per il viaggio, visto come avventura e come conoscenza, nonché per le rovine e per gli oggetti antichi. Passioni coltivate in segreto fin dallinfanzia ma sviluppate appieno solo nelletà adulta a fianco di quelle per i sigari, per il buon cibo e per il buon vino; passioni che, come testimoniato da lettere e diari, furono essenziali nellelaborazione di quel lungo processo di autoanalisi necessario a porre le basi per i suoi studi sulla psiche umana. Ci sono evidenti affinità, infatti, tra il metodo usato dallo psicanalista e quello applicato dallarcheologo. Entrambi «scavano» seguendo tracce più o meno chiare per portare alla luce qualcosa rimasto nascosto - sepolto - per lungo tempo.
Da questo punto di vista lo psicanalista diventa un «archeologo dellio» a caccia di esperienze infantili, di rimozioni, di angosce segrete, che rintraccia seguendo con pazienza «un procedimento di svuotamento strato per strato, che ci piaceva paragonare alla tecnica del dissotterrare una città sepolta». Così, invidiando segretamente Schliemann, lo studioso che aveva scoperto le rovine della mitica Troia, lautore dellInterpretazione dei sogni si abbandonava ai suoi desideri infantili e osservava il suo stesso piacere, ricavandone un metodo per riportare alla luce altri segreti e altri tesori, celati dentro la psiche.
Ed ecco finalmente formarsi davanti ai nostri occhi le altre immagini di Freud.
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