Si è spento ieri a 97 anni John Kenneth Galbraith, economista statunitense di origini canadesi (ma naturalizzato fin dal 1937) e figura di primo piano della sinistra novecentesca. La sua, senza dubbio, è stata una vita di successo: professore a Harvard dal 1948 al 1975, è stato consigliere di vari presidenti, ambasciatore in India su incarico di Kennedy, editorialista rinomato. Negli ultimi decenni ha perfino accumulato ben 45 lauree ad honorem. Ma è difficile ritenere che a tanta gloria corrisponda davvero un valore intellettuale di analogo rilievo. Se quindi non sarà ricordato per i suoi contributi alla scienza economica, invero modesti, pure è fuori discussione che egli si è ritagliato un posto di primo piano nella storia culturale e politica statunitense, soprattutto per lenorme influenza esercitata su generazioni di studenti e lettori.
Quale economista, Galbraith fu in apparenza un keynesiano di stretta osservanza, anche se privo della forza teorica dello studioso britannico. Nelle sue mani, però, linterventismo economico assume una coloritura ben più moralistica e puritana, come attesta la sua opera di maggior successo, La società opulenta, del 1958. Più che accusare il capitalismo di produrre crisi e disoccupazione (come erano soliti fare da sempre i socialisti), egli contesta la tendenza delle società ricche a favorire i consumi di lusso, a scapito di beni socialmente più importanti: dallistruzione allassistenza.
In realtà, come fece notare Friedrich von Hayek, «una parte rilevante dei consumi dei ricchi, sebbene non sia orientata a tale obiettivo, serve a finanziare quelle sperimentazioni di prodotti nuovi che, in seguito, finiscono per essere disponibili anche ai ceti più poveri». Per intenderci: il telefono portatile, il cui costo è crollato (grazie alla concorrenza) in pochissimi anni, da status symbol è diventato rapidamente uno strumento utilissimo per la vita di chiunque.
Ma non solo il lusso finisce sotto lattacco di Galbraith. Riproponendo tesi già avanzate da Joan Robinson, egli vede nel libero mercato lorigine di gruppi finanziari destinati ad esercitare un autentico strapotere. Tanta ostilità verso il «potere economico» gli impedisce però di cogliere i ben maggiori pericoli derivanti da quel «potere politico» di cui domandò sempre la massima espansione. Non si avvide neppure che i conglomerati economici sono in condizione di limitare la libertà dei singoli solo quando ottengono la protezione della legge ed i favori della classe politica. Le grandi imprese, allora, non ci minacciano in quanto tali, ma in virtù dei loro collegamenti con il potere politico. È unicamente grazie allo Stato, in effetti, che esse possono sottrarsi a quel contesto concorrenziale che le obbliga a servirci al meglio e a soddisfare le nostre attese.
Da ogni punto di vista, Galbraith è stato un nemico dichiarato della società capitalistica. E quando Bill Clinton il 9 agosto del 2000 linsignì della «Medal of Freedom» non mancarono commentatori che sottolinearono quanto fosse paradossale che un simile premio fosse assegnato proprio ad uno dei più coerenti fautori dellintervento pubblico: nelleconomia, nellistruzione, nella sanità. Come ha correttamente scritto Tibor Machan, per tutta la vita Galbraith «è stato un duro critico del capitalismo e del libero mercato, che ha basato le proprie analisi su unidea essenzialmente elitaria e paternalistica di ciò che gli Stati devono fare per il popolo».
Egli non fu certo un marxista, semmai un socialdemocratico, eppure accettò sempre lidea di Marx secondo cui i ricchi non creano nulla e tutto ciò che possiedono viene dallo sfruttamento della gente più modesta. La sua stessa critica allemergere di una tecnostruttura manageriale interna al mondo economico (gli amministratori che si trasferiscono da unazienda allaltra seguendo logiche puramente opportunistiche) sottovaluta il ruolo del mercato azionario, allinterno del quale i capitali, piccoli e grandi, si spostano proprio dalle imprese giudicate meno profittevoli verso quelle ritenute in grado di dare più soddisfazioni agli investitori. E in tal modo sanzionano gli stessi amministratori.
Un altro tema variamente affrontato da Galbraith (ne Il nuovo Stato industriale del 1957, ad esempio) è la pubblicità, ma anche a tale riguardo le sue tesi appaiono del tutto invecchiate. Comè noto, quelli che Vince Packard definì i «persuasori occulti» ben poco possono per obbligarci a fare ciò che non vogliamo; e questo perché il contesto in cui operano è pluralistico (tanti pubblicitari invitano ad acquistare tante diverse automobili) e quindi hanno sempre enormi difficoltà a promuovere un bene di scarsa qualità. La pubblicità è soltanto una parte, assai limitata, della vita economica e sociale: ed ognuno di noi, quale consumatore, ha diverse possibilità di valutare la fondatezza (o meno) di quanto promette questo o quello spot. Linsieme di tali errori, in realtà, discende da unassai limitata comprensione del carattere soggettivo delle preferenze umane. Nelle sue pagine è invece sempre chiaro che cosa dovrebbero preferire gli uomini e chi (la classe politica) dovrebbe indurli a compiere certe scelte.
Anche se il suo ultimo volume è uscito nel 2004 (Leconomia della truffa), era da tempo evidente come questo economista appartenesse ad unaltra epoca: quella del trionfo dello Stato e dellespansione illimitata dei poteri pubblici. Ed oggi anche una parte rilevante della sinistra occidentale è ben consapevole che non può prendere per buone le sue ricette economiche a base di alta tassazione, monopoli statali e fitta regolamentazione.
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