Gasparri: "Fini? Così non potrà diventare il leader del Pdl"

Il presidente dei senatori Pdl: "Non è mica Almirante, non è un maestro. Se vuole andare nel Ppe, con certe posizioni... Alcune sono pure in contrasto con la base"

Gasparri: "Fini? Così non potrà 
diventare il leader del Pdl"

Roma - Ha affrontato in 48 ore due duelli che fanno tremare le vene ai polsi. Con il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e con il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Eppure, quando lo intervisto Maurizio Gasparri è sereno. Ricostruisce il suo diario politico (e umano) come se stesse parlando di altri. Nega ogni turbamento, racconta: «Solo oggi ho ricevuto centinaia di sms! Più 40 email all’ufficio stampa di An: 38 a favore, 2 critiche. Faccia lei». E a fine intervista, con un ruggito di orgoglio: «Ho sempre rifiutato i formalismi retorici, i salamelecchi, i cicisbeismi, i riti politicamente corretti. Se malgrado tutto ciò sono sulla piazza da qualche decennio, vuol dire che c’è spazio politico anche per me, no?».

Senatore Gasparri, si è pentito, di aver usato toni così bruschi?
«Fra gli sms che ho citato ce n’è persino uno inglese. Finisce così: Gasparri with the balls. Lei come lo traduce?».

Come lei, immagino. Ma basta questo a non farla sentire isolato?
«Al Senato è stata votata una mozione voluta da me, sostenuta anche da Rutelli, dall’Udc, da singoli esponenti del Pd... Uno dei voti con il consenso più ampio da inizio legislatura».

La direzione di An l’applaude...
«È un bel segno di solidarietà».

E quella frase su Napolitano?
«L’ho meditata in ogni parola, non mi pento. È legittima, la ripeterei: ma se ha offeso qualcuno mi spiace».

Cosa aveva valutato?
«In quei momenti tutti eravamo di fronte a scelte drammatiche. Ho pensato alla nostra scelta, a quanto ci è costata: e che anche a Napolitano sia costata altrettanto».

E quindi?
«Ho detto: peseranno le firme messe, e quelle non messe. Ovvero: la nostra e la sua».

Solo che prima lei parlava della morte di Eluana. Quindi firma apposta, o non apposta, su un decesso.
«Non voglio essere ipocrita. Pensavo, e credo che siano scelte drammatiche. Si può dare una interpretazione offensiva di quelle parole, ma io difendo il diritto di esprimere le opinioni su questo, anche sulla scelta del Quirinale di bocciare il decreto. Perché...»

Cosa?
«Se Napolitano diceva che quel decreto era incostituzionale, c’era una sola conseguenza possibile».

Quale?
«O aveva torto, come penso. Oppure il premier, il suo governo e i suoi parlamentari portavano avanti una legge incostituzionale. E questo non possiamo accettarlo da nessuno».

Il capo dello Stato è il garante della Costituzione.
«Ma questa era una materia inedita e controversa. Ho raccolto i pareri di decine di costituzionalisti, fra cui ex presidenti della Corte, che sostengono la piena liceità della nostra legge».

Quindi nessun rimpianto.
«No, ma una spiegazione. La notizia è arrivata mentre eravamo inchiodati in Aula, dopo ore di difficile dibattito. La mia addetta stampa mi leggeva l’agenzia fra le lacrime... La Roccella incredula mi chiedeva: “Sei certo”? Tutto il Parlamento era investito di un’onda di emotività. Non solo noi».

A chi si riferisce?
«A tutti. Ma sono rimasto colpito dal viso di Veronesi. Noi piangevamo, lui aveva stampato un ghigno...»

Vuol dire che per lei rideva?
«Vorrei poter dire che è stato un sorriso tirato per i nervi, cos’era davvero non lo so. Lo sa lui...».

E poi arriva la dichiarazione di Fini che le dà dell’irresponsabile. Vi conoscete da una vita...
«Trentasei anni».

Gli ha parlato dopo?
«No. Lui ha dato quell’interpretazione offensiva. Ha avuto un riflesso difensivo per il Colle me lo spiego così».

Non l’ha chiamata prima?
«No. E avrebbe potuto avvisarmi».

E lei come se lo spiega?
«Poteva essere un intervento da capo di An, su un membro di An».

E non è così?
«Io oggi sono il capogruppo di tutto il Pdl».

Vuol dire che Fini non lo sa?
«Lo sa. Ma a volte assume anche lui posizioni che sono in contrasto con il sentire medio dei militanti di An».

Quando dice queste cose sa che Fini potrebbe irritarsi?
«Io dico quello che penso, senza calcoli di opportunità. Fra l’altro io dico “cose di destra”: il mio gruppo mi ha applaudito in standing ovation, quando ho gridato “sono responsabile”».

Era una risposta a Fini.
«Certo, non erano frasi a caso».

Ma lei era infervorato...
«Non è che la passione sia alternativa al pensiero».

Lei dice anche che le prese di posizioni di Fini, dal voto agli immigrati, a quelle sull’Islam, alla bioetica non riscuotono consensi in An?
«Per carità! Molti consensi. Ma molti tra chi non ci vota. Ezio Mauro ha scritto di apprezzare Fini. Io ho ricevuto i complimenti di Belpietro».

Che futuro immagina per Fini?
«Lui può fare qualsiasi cosa voglia, anche il capo di un grande partito unitario di centrodestra... Certo, andando verso il Ppe, non credo che possa farlo su queste posizioni».

Fini l’ha anche degradata...
«Oh, certo. Nel 1997: fece una polemica contro i colonnelli, io ero coordinatore, mi destituì».

È stata dura?
«Durissima. Ma se sono sopravvissuto e come vede sono qui! Evidentemente non ero una nullità, eh, eh..».

Poi, il giorno del giuramento, nel 2005 saltò la poltrona da ministro.
«Fui io a non voler giurare. I miei dubbi erano sulla presenza di Storace, a quanto pare, ho avuto ragione».

La terza volta: sconfessione pubblica alla proiezione del «Mercante di pietre». Per lei era un film da sponsorizzare, per Fini «una boiata».
«Quello era una questione di gusti».

C’erano di mezzo il rapporto con l’Islam, il Corano nelle scuole...
«D’accordo. Ma anche su quello, credo che le nostre posizioni rappresentassero la maggioranza di An».

E poi c’è stata questa polemica.
«Ma per me non è una sconfessione. Ho avuto solidarietà da tutti! È stato un successo, non una sconfitta. Nel dramma di Eluana, in un clima difficile, abbiamo costruito un allargamento di consensi e una vittoria politica».

Però il suo maestro l’ha bocciata.
(Una pausa). «Fini non è mica Almirante. Un capo non è un maestro».

Lui era

responsabile universitario, lei degli studenti, e Fini le dava i volantini a Sommacampagna.
«È stato il capo politico di una generazione. Lo è. Ma anche io ho 52 anni: fra poco andiamo tutti in pensione...».

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