Roma - «Vede, io non impongo nulla, non chiedo atti di martirio né desidero che i nostri olimpionici si trasformino in kamikaze: ma qui c’è in gioco la libertà dei popoli e dell’Occidente, mi piacerebbe che i nostri ragazzi potessero lanciare un piccolo grande segnale simbolico». Maurizio Gasparri, capogruppo del Popolo della libertà, anche dopo l’ondata di polemiche e di dissociazioni sollevata dal suo invito ad approfittare delle Olimpiadi per denunciare il regime cinese non arretra di un passo.
Lei è uno dei massimi dirigenti del centrodestra, questo suo invito è uno strappo istituzionale?
«No, io sono il capogruppo al Senato, non faccio parte del governo, non impegno la diplomazia italiana con la mia dichiarazione, non impongo nulla. Detto questo, non rinuncio alla mia battaglia, ad esprimere delle idee, e non mi tiro indietro, anzi».
Molti atleti dicono che è troppo facile chiedere a chi fa sport di rischiare la squalifica, quando la politica non ha risolto i problemi.
«Ho incontrato per puro caso Petrucci due sere fa e ho discusso con lui di questo tema. Mi ha ribadito quello che direbbe a chiunque altro, che ci sarebbe una squalifica per chi lanciasse messaggi politici. Tuttavia...».
C’è un’altra possibilità?
«Credo che esistano infinite possibilità di espressione».
Che cosa intende?
«Il pugno chiuso sollevato e una testa reclinata dei due atleti di colore, nel 1968, non erano uno spot politico: eppure Carlos e Smith, sono entrati nella storia del Novecento per questo. Credo che ci siano mille possibilità di inventare forme di protesta inedite, diverse, intelligenti».
Lei che farebbe?
«Mi piacerebbe saperlo. Non necessariamente bisogna evocare il Tibet o il Dalai Lama».
Ha pensato a qualcosa di diverso?
«Forse metterei una maglietta con scritto sopra “freedom”. Forse troverei il modo di mostrare una sciarpa, un colore, chissà. Vorrei vedere chi mi squalificherebbe, per questo. Forse farei un segno con la mano. Forse basterebbe meno».
E a chi le domanda perché proprio ora?
«Personalmente è tutta la vita che combatto contro le dittature comuniste, non mi sono svegliato una mattina con un capriccio in testa. Ma ovviamente credo che vada fatto ora, perché questa è la più grande possibilità di porre il problema della libertà su scala planetaria. Le voglio fare una domanda io, però».
Prego.
«Lei per caso si ricorda tutti i record, tutti i primati, tutti i medaglieri della storia dello sport internazionale?».
Ovviamente no.
«Nessuno di noi, però, ha dimenticato quel gesto del 1968. Perché sono i simboli che fanno la storia. Grazie a Dio il problema della segregazione è superato, in America, ma noi, dopo quaranta anni, siamo ancora qui a parlare di quei pugni chiusi».
Anche i due ex campioni ne parlano ancora: non sono d’accordo sulla paternità di quella protesta.
«Rispetto alla storia conta ben poco».
Qualcuno si potrebbe stupire che un dirigente storico della destra sia ammirato da un gesto di simpatia per il black power.
«Sono ammirato, ancora prima che dal contenuto di quel messaggio, dal coraggio che ha espresso. E dalla forza con cui si è imposto nella storia».
Molti ricordano che ci sono tanti paesi che violano i diritti umani.
«Io credo che la Cina faccia tutto questo in maniera grave e di più. Fa dumping economico, viola i copyright, avvelena l’ambiente, reprime non solo la libertà del Tibet, ma tutte le forme di dissenso, arriva persino ad oscurare i siti internet che parlano di diritti umani. Abbiamo il dovere di non rassegnarci a tutto questo».
Sta creando una rogna a Berlusconi?
«Se c’è uno che sui temi della libertà non può che essere d’accordo è Berlusconi. Tant’è vero che a Pechino non ci va, credo che sia un segnale inequivocabile».
Ci va Sarkozy, però.
«L’ho incontrato pochi giorni fa, mi considero un sarkozysta, sono certo che porrà il problema dei diritti, come ha annunciato di voler fare».
E a Frattini che si dissocia che dice?
«Spero che andando in Cina, trovi il modo di ricordarsi del Tibet, e dei diritti civili. Quelli che hanno votato me e lui hanno a cuore questo».
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