La generazione X va al potere

Sono in sette. Il Novecento per loro è una storia finita. Giorgia Meloni e Mara Carfagna sono nate nel ’77. Hanno 31 anni. La Prestigiacomo ne ha 41. In mezzo ci sono la Gelmini, Alfano, Fitto e Zaia. Nelle stanze del governo è arrivata quella che un tempo chiamavano generazione X, generazione nessuno. Quelli senza carosello e tutti a nanna. Ma anche quelli senza P38 e opposti estremismi. Sono quelli salvati da Space Invaders.
Gli ultimi spari degli anni ’70 sapevano ancora di Renault 4 e covi brigatisti. C’è uno strano gioco che appare nei bar italiani. I posteri lo chiameranno videogame, per ora è solo una schiera orizzontale di ranocchi alieni che scende in basso compatta e disciplinata come truppe macedoni. I bambini che stanno lì a giocare sanno solo una cosa: spara prima che arrivino a terra. Fuori, nelle piazze metropolitane, gente di quasi 30 anni continua a bruciare le illusioni in un bagno di sangue ideologico. Anche loro sparano, anche loro forse non sanno bene perché.
Space Invaders è una frontiera. La «rivoluzione virtuale» segna il salto culturale con i baby boomers, la generazione degli anni di piombo. Prima di Space Invaders il reale e l’immaginario correvano lungo lo stesso binario, gli studenti interpretavano il dramma dell’eroe, figli di un’epopea collettiva che spiegava la realtà attraverso i miti e i sacri testi della rivoluzione. Il risultato è che hanno evocato tutti i sogni e poi li hanno bruciati in piazza. Dopo, dopo Space Invaders, la fantasia può scartare di lato e ritrovare un suo mondo, una sua forma, una sua storia. È la svolta degli anni ’80, una ridefinizione della percezione intellettuale, un ritorno alla capacità di distinguere tra reale e non reale, vita e gioco, opzioni e desideri, essere e dover essere. È la generazione costretta a fare i conti con le macerie ideologiche del Novecento. E viene accusata dai fratelli maggiori di riflusso, disimpegno, indifferenza, di non avere un rapporto «politico» con la piazza. Insomma, di non contestare. La scommessa della generazione X è un’altra: sfuggire alla tribù degli ex, l’esercito dei reduci, maschere di veterani che sopravvivono al proprio passato espiando il proprio peccato nella recherche delle figurine Panini. È con questi che bisogna fare i conti.
Quello che allora chiamavano «riflusso» fu invece negazione, ripudio. È il passaggio dalla «pesantezza» alla «leggerezza». È l’astronave di Goldrake che atterra sull’etere italiano nel 1978 e apre la strada ai post moderni manga giapponesi. Con un effetto comico. Mentre in piazza il piombo è ancora caldo, psicologi, sociologi e intellettuali vari bollano Actarus e i suoi robot come diseducativi: «Troppi mostri, troppe alabarde spaziali e lame rotanti. Troppa violenza». E oggi a 30 anni di distanza viene la voglia di chiedere: ma come avete fatto a confondere Candy Candy con Che Guevara, Mazinga con Mao e il maglio rotante con la P38? È la musica che si trasforma in video clip. È drive in e la banda di Ricci. È il seno di Sophie Marceau che sbatte in faccia al femminismo come ideologia, i sogni di un’adolescente che soffre, langue, s’innamora e fa la stronza. È Sergio Caputo che canta «un sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato».
È la generazione stanca dell’eterna guerra civile tra fascisti e comunisti. Quella che si è scoperta, dopo la caduta del Muro di Berlino, liberale quasi per necessità, costretta per sopravvivere (e forse per esistere) a ripensare al welfare alla italiana, malato di vampirismo e finalizzato a difendere i privilegi dei baby boomers. Quelli che per anni hanno cercato una via d’uscita alla doppia repubblica del lavoro, da una parte gli iper garantiti che hanno tutto, dall’altra i precari che non hanno nulla. È la speranza di poter esprimere talenti e personalità, lasciandosi alle spalle la cultura archeologica dei «mitici anni ’60».


È la generazione che ha detto addio alle cattedrali del vecchio secolo, ormai ingombranti macerie, e vuole togliere agli ultimi reduci del ’68 e del ’77 l’illusione di aver vissuto un’epoca d’oro, condannandoli all’idea di aver bruciato, con il loro delirio d’onnipotenza, sogni e certezze, lasciando ai posteri solo disillusioni.
Questa è la generazione che deve ricostruire il futuro.
Vittorio Macioce

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