Nessun mostro a Bargagli, a uccidere fu il clan

Nessun mostro a Bargagli, a uccidere fu il clan

Circa la vicenda intitolata «Mostro di Bargagli» c'è sempre stato il tentativo di limitarne il clamore cercando di confinarla alla ordinaria cronaca locale. Sfuggì al controllo solo sporadicamente come quando approdò a Telefono Giallo di Augias: siamo nel 1987. Un impulso alla rivisitazione del caso è recentemente venuto dal romanzo «Il mostro di Bargagli» di Giorgio De Rienzo cui si può affiancare «I delitti di Borgoglio» di Giovanni Barlocco. Con la consulenza del Centro Ricerca Criminalistica di Genova entrambi i libri sono stati presentati anche al Festival della letteratura del crimine tenutosi in Genova nell'ottobre scorso. Tuttavia, l'autorevole storico sulla questione rimane Eugenio Ghilarducci, già collaboratore dei partigiani e poi studioso ed attento ricercatore di quell'epoca egli, con «Storia: giallo e fantasia in Bargagli» e «L'ultima missione» ha saputo rendere spezzati e notizie certe ed uniche sull'inquietante caso che si sviluppò nell'entroterra genovese con una catena di omicidi durata dal 1944 al 1983.
Sul piano dell'articolistica, invece, va il nostro pur postumo ringraziamento addirittura a Giovanna Pajetta - la figlia dell'onorevole del P.C.I - che, evidentemente animata da nobile onestà politica, pubblicò due servizi su «Il Manifesto» del 22 e 24 luglio 1984: due lavori dall'attenta lettura dei quali si può individuare almeno un nome senza dubbio «significativo» e che se ancora vivesse sarebbe, a parer nostro, una seria fonte per la risoluzione dei misteri bargaglini.
Per il resto, rimane comunque opinione diffusa che ogni presunta fatica investigativa si sia risolta in scarsi e confusi risultati proprio per una continua aleggiante presenza di intuibili «grandi vecchi», custodi di segreti che non dovevano tramutarsi in verità scomode non solo sul piano degli interessi economici privati e di partito quanto anche nel senso di evitare danni all'immagine di un'eroica resistenza locale. Resistenza locale già nata difettosa poiché sospettabile di reggersi, sin dai primi delitti del 1944 (banda dei vitelli) su di una iniziale solidarietà tra patrioti fuorilegge e fuorilegge travestiti da patrioti che poi, a bottino fatto, si sarebbe tramutata in rissa per la spartizione sino all'intrigo di delitti che ben lascerebbe intendere anche una ulteriore successiva tacita delega data a qualche tosto fiduciario locale affinché vigilasse ed eliminasse in qualsiasi modo ogni potenziale pericolo.
Poi, se anche vennero individuati dei nomi, la distribuzione presumibilmente postuma di «patentini di partigiano combattente» ad indagati almeno per la prima serie di delitti consentì di applicare loro i benefici ex amnistia Togliatti ed indulto Scelba (1953): ciò bene evidente nella sentenza 384/84 R.G.G.I .- Sez.Prima Trib. Genova - datata 21.06.88 e firmata G.I. De Mattei.
Bargagli si difende
Sul Secolo XIX datato 08.04.84 (autore Carlo Bancalari) apparve un articolo sulla seduta straordinaria della Giunta Comunale di Bargagli (sindaco Boleto) con argomento «la lamentela per la campagna stampa contro il Comune relativamente al c.d.Mostro»: veniva ritenuta ingiusta, denigratoria e non veritiera (ciò riferivasi particolarmente ad un altro pregresso lavoro pubblicato sull'Espresso ove Bargagli venne definito «fabbrica della morte, paese di faide con una particolare predisposizione degli abitanti alla grettezza»).Nel corso della seduta, di contro, il sindaco Boleto avrebbe lamentato: «si è andati sino alla ricerca dell'albero genealogico, si è frugato nell'intimità familiare, si è scritto di matrimoni tra consanguinei, si è fatto riferimento a matrimoni tra i soli Moresco e Cevasco, cosa che, invece, appartiene ad un lontano passato, alla vecchia civiltà contadina e, conseguentemente, non è vero che la comunità bargaglina sarebbe profondamente ammalata dal punto di vista psichiatrico...».
Contestualmente c'è che «chi ha ucciso non è certo di quelle parti e tanto meno è un mostro in quanto non sembra così furbo e così scaltro): ciò apparso in un articolo attiguo al primo (ipso foglio ipso die a firma F.F.).
Il Bancalari, nel suo , termina comunque affermando che «il messaggio uscito da quella seduta comunale fu quello di ridare un'immagine di pulizia e di sicurezza al paese arrivando a scoprire la verità: qualunque essa sia e costi quel che costi!».
Tutto retorica preconfezionata: siamo ormai nel 1984, particolarmente dopo il suicidio di Pistone e l'omicidio De Magistris (fatti di ancor più ampia risonanza), potrebbero essere intervenuti diversi imput a chiudere la catena di sangue pena rovinare effettivamente una narrata immagine di coraggiosa e Resistenza della vallata (cui, si conceda presumerlo, potrebbero anche essere seguiti degli «inviti» ad allontanarsi dal paese - il rischio di essere scoperti era ormai eccessivo - rivolti a soggetti residenti e probabili ad essere finalmente inquisiti). Non a caso, in quegli anni, diversi personaggi si allontanarono dal paese per andare «comodamente bene» ad abitare in comuni rivieraschi (soprattutto del levante ligure ). È comunque un dato certo che dal 1994 in Bargagli non siano più avvenuti delitti addebitabili alla storia del mostro e fatti di sangue avvenuti successivamente in quei luoghi non ebbero alcun collegamento con il filone criminale in esame.
Mostro
È un termine generico che si usa a dismisura e comunque non si addice all'autore (od autori) della vicenda. Il termine «mostro» senza dubbio affascina e suggestiona l'immaginario collettivo, evoca tragicità-inquietudine-mistero: è strumentale quindi, a colpire in modo forte la comune fantasia e così catturando l'interesse della massa. Commercialmente è una definizione vincente e la sua letteratura non ha mai subito deflessioni.
A Bargagli, in verità, seguente non è mai esistito un «mostro». Abbiamo a che fare solo con una lunga vicenda sanguinaria che ha le radici in un gruppo «storico» (la banda dei vitelli) per poi unirsi e confondersi nelle note avventure dei tesori della Tecosa: è una semplice vicenda circoscritta a quel gruppo (e che si estrinseca in vendette interne, eliminazione di testi scomodi, nell'esigenza a mantenere in qualsiasi modo i segreti del clan). Un clan sicuramente locale (meglio ancora, residenziale) unito da un collante di comuni ed interessi, subordinato a qualche interno più tosto e carismatico, che probabilmente si avvale di uno / due soggetti «attivi»: il tutto in un contesto sociale di paura ed omertà.
Si esclude, pertanto, la presenza di un serial killer: non si presentano, infatti, quelle specificità che connotano la figura del S.K. (v. De Luca, Lucarelli, Picozzi, Lavorino). Ciò anche se la ripetitività degli omicidi (compresa di simili stili, strumenti necandi, luoghi ed orari) porterebbe a concludere con l'esistenza di organizzazione - programmazione - pianificazione che possono tentare alla confusione con la tipologia dei S.K. for profit. In conclusione, agì solo un pluriomicida talvolta associabile ad uno-due complici.
Tecnica investigativa
Il rituale dei delitti e lo stile necandi conducono ad un'impronta contadina (e comunque di basso profilo). Si consideri: la strumentazione usata dall'occider ( bastoni e pietre quali si usavano nelle antiche aggressioni contadine o nell'uccisione di bestiame). Ciò tuttavia dimenticando che comunque tutti sanno come l'arma da fuoco lascia traccia (bossoli, polvere, etc.) e sia quindi strumento scomodo reperibile, individuabile, autentica prova). E, così, forse è meglio evitarne l'uso (seppur facilmente nascondibile in una zona agreste quale quella bargaglina e dove, peraltro, di armi occultate sicuramente ancor oggi se ne trovano in buona quantità).
La profonda e sicura conoscenza dei luoghi (sentieri e passaggi) che permette la scelta di punti idonei all'aggressione: conoscenza che può possedere solo uno del posto, uno che sa muoversi bene in quei posti anche di notte.
La profonda conoscenza delle vittime (orari, abitudini, usi) e dei loro momenti di vulnerabilità (al di là che si tratti di tutti soggetti anziani, considerasi lo status di disarmato, di ubriachezza, il momento solitario: tutti elementi che conducono ad una situazione di indifendibilità). Di conseguenza, l'occider pare non dare particolare valore alle sue «capacità di controllo» e dimostra estrema sicurezza di sé non solo nell'azione omicidiaria quanto anche nell'allontanarsi indisturbato e non visto dalla scena del crimine (pena comunque che, semmai qualcuno lo vide, questo dovrà essere a sua volta eliminato).
Ed allora: quando si indaga in una simile situazione, bisogna sempre partire dalla presunzione che il colpevole sia tra gli abitanti del posto e forse risieda nelle immediate vicinanze del crimine. Non si dimentichi che tutti i delitti furono commessi in uno spazio di un perimetro ristretto. Si unisca che l'assassino deve conoscere bene la sua vittima.
L'occider, tuttavia, non può non avere mai lasciato una qualche «impronta fresca»: impronte di scarpa, digitali anche sulla vittima (o su sassi, tronchi, ramaglia locale od altro). Ci si chiede: il detective attuò correttamente almeno i tradizionali rilievi sulla scena del crimine (per poi procedere ai dovuti confronti con soggetti locali «interessanti» ovvero che sono genericamente sempre stati sordamente «chiacchierati» come personaggi del clan)?
Unisco anche che il tradizionale monitoraggio del posto alla ricerca di mozziconi di sigaretta, ulteriori eventuali macchie di sangue (nel caso di ferite prodotte dalla vittima nell'eventuale tentativo di difesa, lembi di tessuto o bottoni od oggetti personali persi durante l'atto o nell'allontanamento) non risulterebbe essere mai stato correttamente effettuato. Indagini frettolose, quindi, ed apparente scarso interesse come quando l'assassinio De Magistris rischiò di essere classificato come investimento da autovettura.
Si dà atto che per delitti di epoche troppo antiche ancora la prova del DNA né c'era la biotecnologia investigativa (e ciò valga non solo per la traccia ematica quanto anche per le tracce di fibre e/o capello che solitamente sono presenti quando vi sia stato un qualche - e comunque probabile - contatto con la vittima). Stessa cosa valga per le tracce da rottura di arbusti, manipolazione di oggetti (bastoni, rami, pietre e sassi) nonché tracce di pneumatici qualora il delitto stato consumato nelle vicinanze di una via o passo carrabile. Tuttavia, per gli ultimi fatti (anni '80) circa la biotecnologia applicata all'indagine già un qualche cosa si muoveva: è mai stato considerato di investigare anche con le pur scarse nuove tecniche scientifiche? Una vicenda come quella di Bargagli (ampio clamore come quello che fu per il mostro di Firenze) meritava di essere trattata il più modernamente possibile e semmai anche scomodando polizie straniere (come avvenne per Firenze) pur di raggiungere una conclusione finale! Ma non si ritenne di farlo e si vollero seguire sorpassati protocolli composti più di burocrazia che di tecnica investigativa.
Ancora l'indagine
Si rileva quindi , nel complesso dell'indagine, l'assenza di protocolli specifici di intervento sulla scena del crimine ed anche per quanto relativo ad un quadro psicologico spesso utile pur senza scomodando i concetti di signature killer o di criminal profiling ( che meglio si adattano a delitti di veri serial killer ).
Ancora criticabile che, nell'ipotesi di alterazione di almeno una delle scene delittuose (il soggetto trovato impiccato al ramo dell'albero di pesco - decisamente troppo fragile per sostenerlo!-) il detective non abbia preso dovutamente in considerazione la presenza di una c.d. attività di staging (omicidio mascherato da suicidio): ovvero, anche in quell'occasione, dando per scontato una realtà (suicidio di Pietro Cevasco) si è perso di esaminare anche l'ambiente circostante alla ricerca di un qualche cosa di più.
Per quanto invece il caso Pistone (anch'esso trovato impiccato - 1985) dopo aver subito l'ennesimo interrogatorio presso il Palazzo di Giustizia di Genova: atteso che il suo alibi pareva difettoso; atteso che era probabile un suo imminente confronto con altri e dal quale si sarebbe fatta luce su determinati omicidi pregressi; atteso che il soggetto, con un suo rilascio per ritornare al paese, poteva correre rischio di essere eliminato (soggetto che avrebbe potuto essere ormai ritenuto «bruciato» si ritiene che fu commesso un grave errore, ovvero, il Pistone andava in qualche modo trattenuto (fermo giudiziario) e così cautelando lui e le utili argomentazione che, invece, si è portato al cimitero.
Credo, poi, che Pistone non si sia impiccato a seguito di una crisi di coscienza ma «sia stato portato ad uccidersi» per paura. E non paura per la sua integrità fisica (si è annullato da solo) ma per minacce ricevute e magari riguardanti persone a lui familiarmente vicine. È, ovviamente, un'ipotesi investigativa.
Omicidio De Magistris (Anita)
30 luglio 1983. Fu l'ultimo della serie. Appare fuori dalla serie. Morirà dopo giorni di coma presso l'Ospedale di S.Martino.
Lasciando perdere i suoi trascorsi (donna in ex sottufficiale tedesco che faceva parte della colonna della Tecosa), la De Magistris era originaria milanese. La storia che fosse pericolosa poiché, quale musicista, lavorava alla ricostruzione dell'ultima strofa della «ballata della banda dei vitelli» nella quale sarebbero stati contenuti tutti i nomi degli assassini dell'appuntato Scotti non è convincente. Essa era chiamata «tedesca» per via della sua Volkswagen (auto di marca tedesca).
Era una persona totalmente estranea agli interessi ed intrighi della faida. Semmai si era troppo occupata ad una ricostruzione del tessuto culturale del paese, ad un miglioramenti delle condizioni dei giovani del paese (scuola di canto ecc.) che ben invece sarebbe stato meglio rimanessero ad un'originale chiusura. Era anche invidiata e molto: non era gradita per tutto il suo esubero di sforzi che rischiava di superare quello che altri avrebbero dovuto fare.
Insomma: dava fastidio. Da qui l'ipotesi che la causa dell'omicidio nasca nell'invidia, nella gelosia (e, poi, comunque rimaneva quell'antica storia tedesca che certo non era gradita). Uno status emotivo che ha spinto autonomamente qualcuno (pur gravitante nell'orbita della faida) - magari psichicamente molto fragile - ad agire contro di lei a mò di riscatto di una interpretata volontà (di altri) di cancellarla. Ritengo che il suo omicidio fu frutto di una personale autonoma scelta e magari dettata da una personale volontà di accreditarsi, meglio ancora ingraziarsi agli occhi di altri. Si tratterebbe, quest'ultimo omicidio, dell'impresa di un occider psicologicamente disturbato e che uccide per accreditarsi: circa il rituale, emula gli altri omicidi (bastone). Conosce benissimo la baronessa De Magistris, abita in uno spazio molto vicino a lei. Sa come-quando-dove può colpire e non ha grossi problemi a ritirarsi poiché abita negli spazi vicini.
Questa volta, in questo omicidio, non ci si troverebbe di fronte ad un mostro: bensì ad un «mostricciatolo» ed il caso, oggi, potrebbe essere veramente archiviato per «sopravvenuta morte del presunto omicida».

Si trattarebbe (Lavorino) di un omicidio per imitazione: l'omicidio per imitazione si ha quando manchi la capacità psicologica di agire responsabilmente e così, il soggetto meno gratificato imita chi ritiene già gratificato e nella fiducia di acquisirne altrettanta gratifica e stima.
(1 - continua)

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