
di Ferruccio Repetti
Cinema teatro Verdi, a Genova, qualche decennio fa: «Cari amici...». Comincia così a parlare, Giovanni Malagodi, segretario nazionale del Partito Liberale Italiano. Come ha sempre fatto, del resto, col suo vocione stentoreo, nel presentarsi al pubblico che ha ripreso posto dopo aver ascoltato - tutti in piedi, molti con la mano sul cuore - l'Inno nazionale. Le prime file sono occupate dalla Medaglia d'oro Luigi Durand de la Penne, appena uscito con orgoglio e onore dalla Dc, e dal senatore Francesco Perri, e da Giorgio Cassinelli, Antonio Repetto, Attilio Viziano, e dai giovani leoni Alfredo Biondi, Gustavo Gamalero, Ernesto Bruno Valenziano, Franco Baffigi, Giovanni Calabria. «Cari amici...» fa lui. Subito l'applauso di benvenuto, poi il silenzio assoluto in sala, l'attenzione è massima. Non c'è claque, qui si deve ascoltare. E lui - completo di grisaglia con gilet, l'eterno «passaggio» di nero corvino sui capelli - asseconda come te lo aspetti, in perfetto stile britannico. D'altronde, è londinese di nascita, e a Genova, la città più inglese del mondo fuori dai confini della Gran Bretagna, l'aplomb è apprezzato, eccome è apprezzato.
Da qui si sviluppa, ogni volta rigorosa e documentata con tanto di cifre e riferimenti alla Storia e alla cronaca, l'analisi di questo politico assolutamente atipico. Che non indulge all'oratoria demagogica, che non cambia il tono di voce se non per censurare quelli che «illudono i lavoratori con false promesse destinate a non essere mantenute». Solo allora si nota un'increspatura delle sopracciglia. È un attimo, poi riprende il ragionamento lineare, al centro del quale c'è sempre la crociana religione della libertà prima ancora del liberalismo e, meno ancora, del liberismo. Lui la chiama: «Economia sociale di mercato». E l'ascoltano anche al di là di quel cinema teatro. Perché Malagodi è liberale (vero!), europeista, uomo delle istituzioni, banchiere, esperto di economia e finanza, in grado di esprimersi efficacemente in italiano nei discorsi e negli scritti, così come disinvoltamente in inglese nei consessi internazionali, dove gli è sempre riconosciuta alta capacità e autorevolezza.
Pare l'identikit - magari autobiografico... - di uno degli attuali «tecnici di sobrietà e di governo», se non addirittura del «supertecnico» per antonomasia. Invece questo è il ritratto preciso, quantunque parziale, di Malagodi. Cui, chissà, un giorno potrebbe essere intitolata una via o una piazza di quella città, Genova appunto, che lo accoglieva sempre con grande rispetto e simpatia. Anche dal punto di vista dei consensi elettorali, che a un certo punto fecero del capoluogo della Liguria un modesto, ma significativo caposaldo liberale. È stato Beppe Damasio, liberale diversamente giovane, uno di quelli che a suo tempo andavano ad ascoltare Malagodi come si ascolta un amico saggio che ti dà ottimi consigli, è stato Damasio a lanciare l'idea: «Via o piazza Malagodi a Genova. Che ne dite?». Adesione immediata da parte del neo-segretario regionale del mai spento Pli, Massimo Alfieri, del presidente Giovanni Calabria e del senatore Enrico Musso. L'idea corre sul web, raccoglie consensi. Be', non saranno una valanga, non è nel Dna di un partito che, storicamente, anche con Malagodi segretario, e Bozzi, e perché no? Bonea, Valitutti, Baslini, per non dire di Croce e Einaudi, non è mai stato di massa, quanto piuttosto di individui e individualità. Ma in un Comune quasi-metropolitano dove c'è via Palmiro Togliatti, comunista, ci potrà stare o no anche via Giovanni Malagodi, liberale?
Damasio è un entusiasta, testardo com'è ci crede fino in fondo, mentre di tanto in tanto gli torna in mente quel tal discorso al cinema teatro Verdi che ha aperto, a lui e a tanti altri, le porte della partecipazione e le finestre della democrazia.
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