Storie di degrado e di vero amore

Il film che presento oggi è il simbolo del progetto che ho intrapreso in questa rubrica, ossia un tentativo di confronto ad ampio raggio dei vari film che hanno reso la città di Genova propria parte costituente. Si tratta di «La bocca del lupo» (titolo tratto da un romanzo di Remigio Zena), film del 2009 diretto da Pietro Marcello e vincitore del Torino Film Festival (precedentemente mai vinto da un'opera italiana). La produzione è stata frutto della compartecipazione tra Indigo Film, L'avventurosa Film e la Fondazione S.Marcellino; quest'ultima in realtà rappresenta la vera e propria ideatrice della produzione, avendo invitato appositamente il regista e il suo staff a elaborare un lungometraggio che raccontasse non tanto l'attività della fondazione quanto piuttosto il mondo a cui essa si rivolge: quello degli emarginati, dei disadattati, dei senzatetto, insomma di quelle persone che si trovano per cause diversificate a consumare la propria povertà e il proprio disagio all'interno dei vicoli genovesi. È proprio questo tipo di proposta che ispira il regista ad assemblare un audiovisivo che rifugga precise definizioni stilistiche. Anzitutto egli decide di non fare affidamento su una sceneggiatura preparatoria, bensì di lasciare le scelte narrative alla fase di montaggio (anche grazie alle notevoli capacità della montatrice Sara Fgaier); inoltre l'intreccio di riprese originali e immagini di repertorio comporta un continuo oscillare fra documentario e melodramma. Il film racconta la storia della miseria e dell'amore di Enzo, emigrato siciliano rude e dolce che ha passato mezza esistenza in carcere, e Mary, transessuale ex-tossicodipendente fuggita da casa ancora minorenne in cerca di rispetto per la propria sessualità. Dopo essersi conosciuti in galera durante l'ora d'aria, Mary al termine della propria pena attende fuori che il suo amato espii la sua lunga condanna per tentato omicidio. Vengono poste come filo conduttore della narrazione le cassette originali che i due protagonisti si spedivano al fine di potersi reciprocamente udire nonostante la separazione forzata; questa scelta contribuisce in maniera determinante a creare quell'atmosfera di semplicità e intimità (che lo spettatore sente quasi di violare), vero leitmotiv della visione. Sono facilmente individuabili due temi centrali ricorrenti, lo stesso regista li definisce rispettivamente la piccola storia e la grande storia: la prima è la tanto umile quanto eloquente storia d'amore appena descritta, che mira a ritrarre uno spaccato emblematico di una condizione sociale presente nei ghetti storici genovesi; la seconda, invece, consiste nell'interessantissimo allargamento dei confini della vicenda primaria alla storia della città in cui è ambientata. Essa viene descritta tramite le metamorfosi ad opera dei suoi abitanti, le quali a loro volta hanno avuto ripercussioni sull'abitare oggi Genova; spesso durante la proiezione viene creato una sorta di flusso dialettico tra passato e presente, sotto forma delle malinconiche onde del mare che con il loro moto perpetuo scandiscono lentamente il passare del tempo e ricordano a chi le osserva l'irrimediabilità di quest'evento. Tutto ciò trova il suo culmine nel confronto diretto fra le immagini girate appositamente e le immagini di repertorio, con grande attenzione da parte della montatrice a mettere su «un'archeologia della memoria» - così viene definita dal regista - che evidenzi come saltuariamente i cambiamenti possano risultare inadeguati (molto eloquente a tal proposito le immagini della zona di Via Madre di Dio, i palazzi storici al posto dei quali oggi vi sono i degradati «giardini di plastica»).
Due scene su tutte aiutano a comprendere e apprezzare fino in fondo la grandezza e la nobiltà degli intenti di questa produzione. Nello spezzone all'interno del bar, l'estrema quotidianità dei dialoghi fra passanti forse amici mette in risalto l'interesse del regista a rendere conto in maniera veritiera di ciò che spesso avviene durante le serate di un qualsiasi locale nei vicoli. In secondo luogo, il vero fulcro narrativo della storia di Enzo e Mary consiste nel piano sequenza finale che immortala una sorta di aperta e volontaria «confessione» dei propri sentimenti reciproci.

Un quarto d'ora in cui viene messa a nudo la potenza e l'autenticità della loro relazione nata dalle ceneri di un carcere: innalzatasi alla pura felicità di una casetta di campagna sopra il porto di Genova, non ha avuto bisogno di lussi o di ambienti confortevoli per consolidarsi in un saldo binario per due vite precedentemente deragliate.

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