Il giallo della rapina del secolo: ladri in galera, sparito il bottino

Cominciò con un bell’uomo con la pettorina della Guardia di finanza che guardava dritto negli occhi un’impiegata terrorizzata, e le diceva «Principessa, indovina cosa sta accadendo». E finì con quattro sacchi neri pieni di gioielli caricati su un furgone bianco. Quattordici milioni in smeraldi, diamanti, fili di perle. Un colpo gigantesco, roba da annali del crimine. Era una domenica mattina, il 24 febbraio 2008, allo show room «Damiani» di corso Magenta. Due anni e tre processi più tardi - e con un quarto processo che deve ancora cominciare - la rapina a Damiani è in larga parte ancora un mistero irrisolto. Per la giustizia hanno un nome alcuni degli uomini che realizzarono l’impresa, e ha un nome uno degli specialisti che si occuparono di rimettere in circolazione il bottino. Ma il guaio è che non uno solo dei gioielli è mai stato ritrovato. Zero. Il bottino è ancora da qualche parte, sepolto, in Italia o all’estero, in attesa di tempi migliori. E ben custodite sono anche le risposte a tante domande.
Le tre sentenze emesse finora dai giudici milanesi vanno lette tutte insieme, perché costituiscono la sceneggiatura appassionante di questo Ocean’s Eleven in salsa milanese. Si potrebbe obiettare: ma questi si sono fatti prendere. È vero. E con errori da dilettanti: come quando, la sera prima del colpo, al varco Ecopass di via San Vittore passò un corteo di vetture, e in testa al corteo c’era - con la sua targa in bella evidenza - la Volkswagen della moglie di Francesco Di Figlia, veterano delle rapine di lusso. O come quando lo stesso Di Figlia usò la stessa scheda telefonica per chiamare i complici, e quando fu scarica la buttò lì, per terra, davanti alla cabina Telecom: così i poliziotti, che lo stavano pedinando dopo la «foto» scattata dall’Ecopass, la raccolsero, e da lì risalirono a mezza banda. Scrivono i giudici: «La leggerezza pare non dimostrare nulla se non l'ennesima prova della difficoltà del delitto perfetto». Eppure la rapina di corso Magenta è, a suo modo, un delitto perfetto. Perché molti degli autori sono ancora liberi, è libero il basista che diede indicazioni millimetriche, sono liberi i misteriosi incappucciati che tra loro, nello showroom, parlavano in arabo, è libero il custode del grisbi. Tra tre o quattro anni anche quelli che sono stati presi usciranno di galera. E il bottino è lì, fuori, da qualche parte, che li aspetta. La taglia da mezzo milione messa dall’assicurazione per ritrovarlo non è servita a nulla.
Quella domenica di febbraio, in corso Magenta, il clan dei siciliani sapeva tutto. Sapeva qual era l’impiegata che aveva le chiavi delle casseforti, e che si sentì apostrofare «sei tu la Betti?». Sapevano il nome della guardia giurata che doveva essere di turno quella domenica, «tranquilli, poi viene su Boi e vi libera tutti», dissero dopo avere legato le impiegate. Sapevano persino quale, delle diverse casseforti, aveva al suo interno il malloppo vero, quello grosso: la puntarono dritta, senza incertezze, snobbando le altre. Come lo sapevano? L’inchiesta è inciampata in un nome: quello di un impiegato dello show room, il cui cognato conosceva uno degli autori dell’impresa. Troppo poco per accusarlo: ma il dato, scrivono i giudici nella sentenza, «non è neutro».
Per arrivare a ritrovare il bottino, prima del processo e durante le udienze, si è tentato di risalire la corrente in senso inverso, scavando nel mondo dei ricettatori. Non sono in molti, a Milano, in grado di piazzare gioielli per quattordici milioni. Uno dei più noti ed esperti, Renzo Poggi, se li era visti offrire e aveva dato un consiglio preciso: «Se sono quelli di Damiani, sotterrateli per sette mesi, poi vi aiuto io a venderli». Poi Poggi si lasciò andare a qualche confidenza con Ciccio Messina, allora capo della Squadra Mobile. E più ancora di lui parlò una signora rumena, Daniela Zamosteanu, padrona di una gioielleria in via Curtatone: che, a differenza di Poggi, le sue accuse è poi venuta a ripeterle in aula. «Sono stati loro», ha detto: e cioè gli Scaglione, Di Figlia, Romeo, Sanzo, il gruppo di siciliani sulla cinquantina in contatto con il Gotha di Cosa Nostra. Ma dove sia il malloppo, neanche la loquace gioielliera ha saputo dirlo.
C’è una intercettazione, realizzata nella gioielleria «Oro e Ore» di viale Tunisia, in cui la parola «Damiani» si sente, e poco dopo il commento ammirato dei presenti, «di smeraldi così ne vedi uno». Ma è un lampo, un flash. Nè in viale Tunisia nè da nessun altra parte (e si è scavato dappertutto!) è più rispuntato nulla. In aula i siciliani si sono proclamati innocenti, tutti, in blocco.

Un paio sono stati assolti, anche perchè nel frattempo sono accadute cose strane: testimoni che perdevano la memoria, album fotografici che sparivano dalle carte del processo. Tutti gli altri sono stati condannati. Ma se sono stati davvero loro, si può scommettere che abbiano accettato la pena con filosofia. Cosa sono sei anni di carcere, quando fuori hai un tesoro che ti aspetta?

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