Da Gifuni a Cecchi: coro di no al Sangue dei vinti

Rifiuti anche da Sabrina Ferilli, Valeria Golino e Raoul Bova. Il regista Soavi: "Raoul non amava la parte"

Da Gifuni a Cecchi: coro 
di   no al Sangue dei vinti

Roma - Inutile recriminare, certo. Alla fine Il sangue dei vinti s'è fatto. E magari il film di Michele Soavi troverà un posticino a Venezia o alla Festa di Roma, in vista del passaggio su Raiuno della versione lunga (due puntate di 90 minuti), previsto per marzo-aprile 2009. Però questa faccenda degli attori che si sono defilati un po' incuriosisce. Qualcosa del genere accadde ai tempi di La luna nel pozzo, sulle foibe titine, altra tribolata fiction della Rai oggetto di ritardi, pressioni, ripensamenti, infinite riscritture, tra registi che mollavano e interpreti che si negavano.

Naturalmente, un attore ha tutto il diritto di sottrarsi a un ingaggio. Per i motivi più vari, siano essi estetici, contrattuali o politici. Tuttavia, sin dall’affacciarsi del progetto, Il sangue dei vinti è stato visto come «un’operazione», tanto da applicare ad essa gli stessi aggettivi piovuti sul libro di Pansa: nel migliore dei casi «inopportuna», nel peggiore «vergognosa, revisionista, falsaria». Non sorprende, allora, che alcuni degli interpreti contattati dal produttore Fracassi, abbiano - come dire? - un po’ tentennato, finendo col passare la mano. Tra questi, Carlo Cecchi, Sabrina Ferilli, Valeria Golino, Raoul Bova, Fabrizio Gifuni.

Difficile avere conferme, tra telefoni spenti e agenti a fare da filtro. Gifuni, attore versatile in cinema e tv, già De Gasperi nella miniserie della Cavani, però risponde. «Guardi, non saprei per gli altri, parlo per me. Se un attore ha una testa pensante, succede di dire dei no. Perché il copione non ti piace, per ragioni artistiche, anche ideali o storiche. Per Il sangue dei vinti è stata principalmente una questione di date. Non ho letto il libro di Pansa, ma la sceneggiatura era equilibrata. Purtroppo ero impegnato con Winspeare per I galantuomini. Mi ha assorbito completamente. Non riesco a fare due film insieme». Alla fine è stato Valerio Binasco a incarnare il torvo capo partigiano Toresi pensato per Gifuni: un po’ l'anima nera della storia, l'ex portantino che sale in Piemonte e durante la disfatta di Salò diventa arbitro, lucido e crudele, del destino di tanti.
Anche Carlo Cecchi, nel premettere «lasciatemi fuori da queste polemiche italiane», lì per lì respinge la motivazione ideologica. «Guardi, non sapevo nemmeno del libro di Pansa e delle discussioni che ne hanno accompagnato l'uscita». Possibile? «Leggo poco i giornali, mi scuserà. Il mio rifiuto era legato alla qualità della sceneggiatura. Poi, certo, ci sarà stato un rapporto tra la mediocrità, per non dire peggio, del copione e l'argomento trattato. Il ruolo che mi avevano proposto è insulso, in gergo si dice “tinca”. Tutto qui». Proprio sicuro che la Resistenza «offesa» non c’entri per niente? «Uno dei miei scrittori preferiti è Céline, figuriamoci». Eppure Soavi, che fruttuosamente ha lavorato con Cecchi a partire dalla fiction su Donato Bilancia, ricorda il contrario: «Carlo è un grande attore, ma anche un uomo ideologicamente piombato. Liquidò il film come una porcheria, e non credo parlasse della parte che avevamo pensato per lui, il prefetto-partigiano Giussani».

Nel caso di Bova, consultato per il ruolo principale, può darsi abbia inciso l'esclusiva con Canale 5 sul versante della fiction. «Se avesse voluto, avrebbe potuto. Magari non sentiva quel poliziotto “fascista” nelle sue scarpe, troppo passivo», riflette Soavi. Dispiaciuto che anche la Golino, forse per l'esiguità della parte o chissà, abbia rinunciato.

«Inutile girarci intorno. Ci sono stati parecchi rifiuti», protesta Michele Placido, protagonista nella parte del commissario Dogliani diviso tra il fratello partigiano e la sorella repubblichina. «Li conosco certi colleghi. Temono i critici, pensavano fosse “una roba di destra”.

Io sto a sinistra, ma non è scandaloso rievocare i bagni di sangue compiuti dai partigiani in quei giorni terribili del '45. Da Montaldo a Verhoeven passando per Malle, molto grandi registi hanno smontato tabù e retoriche resistenziali. Non bisogna avere paura di riconoscere che la storia l'hanno scritta i vincitori».

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