Milano - C’è un argomento che interessa più di ogni altro i giornalisti: se stessi. Non avrà avuto dunque alcuna difficoltà Mariano Sabatini a raccogliere le testimonianze di sessanta colleghi, quasi tutti italiani, per il suo reportage-questionario Ci metto la firma! (Aliberti, pagg. 361, euro 18). Domande quasi sempre ricorrenti, anche se non nello stesso ordine di apparizione, per raccontare «la gavetta dei giornalisti famosi», vale a dire «cosa facevano quando non erano nessuno». Carta stampata, televisione, radio. Una carrellata bella lunga, con nomi che riguardano anche questa testata: Mario Giordano, Nicola Porro, Roberto Levi, Maria Giovanna Maglie, Giancarlo Perna. Il testo è consigliato vivamente a quanti, e sono tanti, e sono troppi, aspirano alla professione. Potrebbero magari ricredersi. Per esempio sbalorditi da quanto riescano, alcuni cosiddetti arrivati, a prendersi sul serio. Quelli sempre «chiamati» a scrivere o a condurre. Quelli che non hanno mai compilato una marchetta (o marketta, pezzo compiacente verso i potenti o strumento di pubblicità occulta). Quelli che «le raccomandazioni contano, ma non nel mio caso, io sono arrivato con le mie sole forze».
Insomma, il merito di Sabatini sta anche nell’aver portato alla luce una certa ipocrisia di fondo, un compiacimento di sé che talvolta sfiora il ridicolo, ma anche il patetico. Ben vengano dunque le pagine dove l’attenzione si punta su personaggi che davvero hanno qualcosa da dire e non hanno paura di dirla. Come Claudio Sabelli Fioretti, professionista di lungo corso, che finalmente ammette: «È un lavoro facile. Consente la propria promozione sociale in maniera semplice e accelerata. Si guadagna decentemente. Se si è bravi si hanno molte gratificazioni. Si ha l’occasione di conoscere persone culturalmente e socialmente di livello». E poi aggiunge: «Non si è liberi come si può credere». Un applauso spontaneo va anche a coloro che non si vergognano di parlare di «casta stampata» (la definizione è di Luigi Bacialli) o perlomeno di «corporazione», per quanto in calo di potere.
Risposte coraggiose, vale a dire controcorrente, le dà anche Gianluca Nicoletti, una delle firme più brillanti della generazione dei quarantenni. A proposito degli aspetti insopportabili della professione, dice: «Il rapporto con i colleghi pieni di sé, quelli che sentono di aver scritto pagine fondamentali della storia del giornalismo, quelli che conoscono tutti, sono amici di tutti, e hanno la faccia come il culo». E infatti Nicoletti lo hanno cacciato dalla Rai, ma con molto meno clamore di altri che poi, guarda caso, ci sono ritornati. Alla domanda se al giornalismo abbia dato di più Truman Capote o Oriana Fallaci, risponde «I ragazzi di Google». E a quella se le scuole di giornalismo servano a qualcosa: «Purché i docenti non siano sempre i soliti quattro giornalisti tromboni che raccontano l’epopea dei loro tempi gloriosi».
Altre interviste da leggere in questo polposo repertorio (non è necessario leggerle tutte e/o per intero, il bello è che si può anche saltellare) sono quelle a Luigi Necco («Non sono mai diventato una firma. Vorrei esserlo per evidenti ragioni di sopravvivenza o di cassetta. Però leggerò questo libro, così imparerò da qualcuno come si fa»).
Su un punto sembrano concordare tutti: un aspirante giornalista che libri deve leggere? «Tutti, di tutto, il più possibile». In effetti, pare un buon consiglio, anche perché è a buon mercato. Per il resto, è evidente che lo stesso autore non potesse illudersi di estrarre chissà quali segreti o confessioni dai suoi scafati interlocutori. I quali in compenso in molti casi si rifugiano in aneddoti divertenti. Vittorio Feltri iniziò come impiegato pubblico fannullone, prima di scoprire le gioie della cronaca e, più avanti, quelle della polemica. Gianni Mura voleva imitare lo stile di Gianni Brera e per questo fu rivoltato come un pedalino dall’allora direttore della Gazzetta Gualtiero Zanetti. Alcune tra le parti più spassose si annidano nelle risposte alla domanda: I suoi errori più gravi agli esordi? Da non perdere quello di Perna, per esempio. Gli sfuggì di mano l’acronimo della Federazione Italiana Trasportatori Autocarri (Fita).
Su alcune definizioni, non c’è concordia alcuna. Quando si parla di scoop, viene detto tutto e il contrario di tutto. Viene perfino il sospetto, al lettore, che il buon giornalismo abbia poco o niente a che fare con lo scoop, e che questo sia più che altro una forma di nevrosi collettiva, o uno strumento di controllo gerarchico. I più mosci, in questa delegazione di «firmaioli», sono appunto quelli che indugiano sugli allori dei loro formidabili colpi esclusivi. Preferiamo Pierluigi Battista, attuale vicedirettore del Corsera, quando dichiara di non averne mai fatto uno.
Quasi tutti gli interpellati ammettono di attribuire grande importanza all’attacco e alla chiusa del pezzo. Non sarà che sottovalutino il lettore? Oppure hanno ragione. Chi sfoglia un giornale è catturato dalle prime righe di un articolo. Solo in quel caso va avanti. E quando finisce, gli resta in mente l’impressione dell’ultima frase. Ma allora è vero, come sostengono in molti, che questo è un mestiere scritto sull’acqua.
Tra i maestri da ricordare, vince la gara di citazioni Indro Montanelli. La Fallaci, invece, continua a dividere. E anche sulla valenza mitica del ruolo di inviato le opinioni convergono meno di quanto ci si aspettasse. Forse perché la tecnologia sembra aver rimpicciolito il mondo.
La prima soddisfazione, praticamente per tutti, corrisponde al primo pezzo firmato.
Lo dicono tanto Riccardo Barenghi quanto Maurizio Molinari. Lo fanno capire tanto Rino Tommasi quanto Pino Corrias. Il che ci riporta al discorso dell’inizio, quello sull’ego. Toglieteci la firma e cambieremo mestiere.www.pbianchi.it
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