Il giorno in cui morirono anche gli hooligans

Tony Bland aveva diciotto anni. Era andato allo stadio in quella mattina di sole sopra Sheffield. Suo padre Allan e sua madre Barbara non potevano immaginare. Tony Bland morì nel millenovecentonovantatre, il ventidue di febbraio, all’ospedale di Keighley, nello Yorkshire dove era stato ricoverato una sera di quattro anni prima. Il suo medico, Jim Howe, per volere di Allan e Barbara, sospese le terapie su quel corpo senza luce e senza speranze. Tony era rimasto schiacciato dalla folla impazzita dello stadio Hillsborough, il 15 aprile dell’89. Liverpool e Nottingham Forrest si affrontavano per la semifinale della coppa d’Inghilterra. Otto anni prima, sempre in quello stesso teatro, la casa dello Sheffield Wednesday, furono trentotto i tifosi feriti nella semifinale tra Tottenham e Wolverhampton. Il segnale di allarme non era servito a nulla. L’Inghilterra continuava a ritenersi al centro dell’impero, il resto era nebbia oltre la Manica, gli hooligans firmavano ogni sabato le loro imprese, la polizia non aveva ancora intuito il pericolo, il Paese pensava alle solite sfide tra mods e rockers.
Ci fu l’Heysel di Bruxelles, ci furono i morti di quella finale tra Liverpool e Juventus, nell’estate dell’Ottantacinque, qualcuno incominciò a vergognarsi dinanzi alle bare di trentanove tifosi, morti per una partita di football. Venne Sheffield, venne l’Hillsborough. Tony Bland raggiunse la Leppings Lane End, la zona dello stadio riservata ai tifosi del Liverpool. Troppo piccola, troppo ridotta, soffocante per il popolo dei venticinquemila “reds”. Il calcio di inizio era fissato alle tre, un quarto d’ora prima il settore riservato al Liverpool era quasi deserto, fuori si erano ammassati cento, duecento, mille, cinquemila tifosi. Sei tornelli di ingresso aperti, in tutto. Niente, una trappola. Qualcuno, molti, forse troppi, non avevano il biglietto di ingresso ma le pinte di birra avevano messo da parte il problema eppoi lì dentro c’erano Kenny il rosso, Dalglish il capitano, e Bruce Grobbelaar e Hansen, c’erano i campioni del Liverpool, non avrebbero mai camminato da soli.
David Duckenfield era il comandante della polizia, quel pomeriggio avrebbe cambiato la sua vita tranquilla. Perse la testa, David, accanto a lui andò in tilt Bernard Murray, il suo vice. Decisero improvvisamente di fare aprire il cancello C, una grata in acciaio. Fu come il crollo di una diga, cinquemila tifosi, cantando, si infilarono in quel tunnel puntando verso la terrazza del Leppings Lane, correndo a destra, a sinistra. Trovarono il buio, si accalcarono, si ammassarono, i canti si trasformarono in urla, le sciarpe finirono calpestate, i corpi con quelle, volti tumefatti, visi violacei, la polvere e il sangue, il tumulto verso la rete di recinzione, si videro ragazzi penzolare come fantocci dalla tribunetta, cercando di fuggire alla morsa, altri afflosciati, sfiniti sulle gradinate, mentre in campo la partita era incominciata, nessuno si era reso conto di quello che stava accadendo, che era già accaduto. Sei minuti di pallone, un tiro di Beardsley sulla traversa, una parata di Grobbelaar, poi un poliziotto, finalmente, raccolse via radio l’ordine del suo capo, mister Buckenfield con le gote rosse dalla paura. Il “bobby” corse verso l’arbitro, era il momento di fischiare la sospensione dell’incontro. Il prato dell’Hillsborough si svuotò, di colpo, calciatori e arbitro raggiunsero lo spogliatoio mentre dietro una delle due porte la macchia di figure era sempre più confusa, sentivi piangere e urlare, e lamenti e strilli, 44 ambulanze accorsero davanti allo stadio, soltanto una riuscì ad entrare sul prato. Novantaquattro morti, settecentosessantasei feriti. Quattro giorni dopo Lee Nicol, di quattordici anni, aggiunse il proprio cognome alla lista dei morti, quattro anni dopo toccò a Tony Bland. Steve Gerrard, il capitano di oggi, del Liverpool, perse quel giorno il cugino John Paul; il portiere di riserva Paul Harrison, il padre.
Dopo trentuno giorni furono stabilite le nuove norme ad hoc per il football: via le recinzioni, soltanto posti a sedere, ricostruzione di tutti gli stadi, controlli assidui della polizia, carcere immediato per gli hooligans. L’esilio dei club inglesi dai tornei Uefa durò cinque anni ma l’editto del governo Thatcher ha portato alla bonifica non soltanto strutturale degli stadi che ora sono case, alberghi, luoghi di ritrovo e di festa vera. Il teppista non abita più a Hillsborough, resta lontano da Anfield, non entra a Wembley. I club inglesi sono tornati a giocare e a vincere.

Vent’anni dopo, oggi, la luce fragile delle candele si accende davanti a novantasei cognomi scolpiti su una pietra di marmo. Alle due meno un quarto, ventimila tifosi si riuniranno allo stadio di Anfield, in memoria silenziosa di un pomeriggio lontano. Non cammineranno mai soli.

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