Hanno «sognato la California» e sono passati dall’Isola di Wight; dominato le hit parade con brani come Il vento e Senza luce (cover di un classico dei Procol Harum), alfieri di un beat semplice e romantico. Un beat all’italiana quello dei Dik Dik, che sfida il tempo e le mode. Dopo i Nomadi (che volano alto) son rimasti loro a legare le radici con il presente. Pietruccio Montalbetti, col suo cappello da cowboy e i pantaloni di pelle nera, li guida nell’attualità con un nuovo cd, il libro I ragazzi della via Stendhal, altri quattro volumi in arrivo e decine di concerti, come quello di ieri sera in chiusura del Festival Musicultura.
«Siamo nati a Milano a cavallo fra la povertà estrema e il boom economico. Il beat è stato una via d’uscita alle bande di quartiere. I giovani pensano ad apparire e ad arrivare in fretta, noi siamo una generazione che non ha nessuna intenzione di abdicare».
Evitando la nostalgia.
«Odiamo il giovanilismo, non vogliamo far finta di non avere la nostra età. È inevitabile che L’isola di Wight susciti nostalgia ma è un momento simpatico, non patetico».
Quindi lavorate ad un nuovo disco?
«Si, ma il problema è che abbiamo un repertorio talmente radicato nella storia, da Il vento a Senza luce, che qualunque canzone nuova sembra debole anche se non lo è».
Pietruccio lei è il simbolo dei Dik Dik.
«Si, e pensare che volevo fare l’archeologo. Quando non suono viaggio; sono stato fra gli Indios in Amazzonia, a visitare le civiltà Maya e Inca, ho scalato l’Himalaya. Sono alla ricerca di qualcosa perché purtroppo non ho la fede. Ho letto la Bibbia, il Vangelo, Marcuse, sono stato in situazioni drammatiche ma non riesco a credere e continuo a cercare. Dai miei viaggi ho pronti quattro libri e un documentario».
Una vita poco rock and roll.
«Mi tengo in forma, vado in palestra. Come tutti quelli che hanno superato indenni il periodo degli eccessi, ora mi curo bene. Il rock è una cosa che hai nella testa».
Intanto ha lasciato il segno nella musica italiana.
«I Rokes da Londra hanno importato una cultura che in Italia si sentiva nell’aria, noi l’abbiamo messa nelle canzoni».
La vostra versione di California Dreamin’ è stato un grimaldello per le hit parade.
«Andavamo alla Ricordi ad ascoltare i dischi che arrivavano dall’estero, selezionati da Vittorio Castelli, il jazzista che era nipote dell’amministratore. Quando sentii California Dreamin’ saltai dalla sedia. Era fantastica. Scoprii che Mogol la pensava allo stesso modo e aveva già riscritto il testo: la incidemmo e volò prima in classifica».
E Battisti come l’avete incontrato?
«All’inizio la sede della Ricordi a Milano era in un cinema parrocchiale. Quando arrivammo per il primo provino, era novembre, nel cinema deserto c’era un ragazzo dalla faccia simpatica che suonava il piano. Lo incontrai ancora il 23 dicembre in piazza Duomo e gli dissi: “cosa fai tutto solo a Natale? Vieni a cena da mia mamma”. Così iniziò l’amicizia. Lucio era una bomba atomica, ma l’atomica se non gli metti l’innesco non fa il botto. E l’innesco per lui fu Mogol».
Ma i Dik Dik come hanno vissuto il 68.
«Cantando il nostro tempo senza essere politicizzati. Comunque anche noi non abbiamo avuto vita facile. Le radio hanno censurato Il vento e Guardo te e vedo mio figlio e il Vaticano ha costretto la Rca a togliere dal titolo di Se io fossi un falegname l’originale E tu ti chiamassi Maria».
Un momento da ricordare nella vostra storia?
«Quando ci chiamo Fellini. Aveva contattato i Beatles per Giulietta degli spiriti ma loro hanno rifiutato; così Stelvio Cipriani ci ha consigliato al maestro. Lui ci chiamo a Roma e volle che suonassimo Belfagor per una scena del film che poi fu censurata. Peccato ma una esperienza indimenticabile».
Shel Shapiro nel suo libro scrive che al Cantagiro era tutto combinato e i discografici si spartivano le vittorie.
«Eravamo troppo ingenui per capirlo. Certo che dove girano tanti soldi come nel pop c’è corruzione ma come fai a dimostrarlo? Meglio pensare romanticamente che sia tutto pulito».
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