Il giurista: "Costituzione tradita, ora deve andarsene"

di Giuseppe Staiano *

«Un atto di analfabetismo costituzionale». Addirittura «una violazione del principio della separazione dei poteri dello Stato». Così, all’unisono, il gruppo dirigente di Futuro e Libertà, all’indirizzo di Berlusconi e Bossi. Le ragioni dell’addebito? Aver qualificato come «inaccettabili» le dichiarazioni rese a Mirabello da Fini, richiedendo un colloquio con il capo dello Stato per sollecitare le dimissioni del presidente dalla Camera, essendo questi venuto meno - assunta la leadership di una nuova formazione politica - a quel dovere di imparzialità che connota la sua carica.

Sarebbe facile rammentare - ai sodali politici di Fini, estemporanei esegeti del testo costituzionale - una «innegabile realtà degli ordinamenti degli Stati democratici contemporanei», ovvero il fatto che mai è stato «attuato in modo letterale e meccanico il principio illuministico della divisione dei poteri», con la conseguenza che «ciascuno dei poteri non esercita in modo esclusivo e rigoroso l’attività da cui prende il nome, ma partecipa - in via eccezionale - a qualche manifestazione delle funzioni degli altri» (Corte costituzionale, sentenza numero 283 del 1986).

Ma il punto decisivo è un altro. Il contenuto e il significato delle norme costituzionali - se ne è smarrito, purtroppo, il senso, negli eccitati dibattiti estivi - si definiscono anche grazie all’interpretazione fornita, con i propri comportamenti, dai soggetti chiamati a fare di esse applicazione. Un ruolo decisivo spetta, dunque, alla «prassi». Essa porta, se ripetuta nel tempo, alla nascita di convenzioni unanimemente accettate dagli operatori istituzionali, dando luogo, non di rado, a vere e proprie norme consuetudinarie. E la prassi è certamente contro Fini.

Già più volte è stato ricordato il precedente di Pertini, che il 7 luglio del 1969 rassegnò le dimissioni (respinte, peraltro, dall’assemblea) dal più alto scranno di Montecitorio, proprio in ragione del fatto che il partito in cui era stato eletto deputato - quello socialista «unificato» - aveva conosciuto una scissione. Identica decisione era stata assunta, circa vent’anni prima, da Saragat, che abbandonò la Presidenza dell’Assemblea Costituente (gli subentrò il comunista Terracini), essendosi reso protagonista della più celebre delle scissioni dal partito socialista, quella consumatasi a Palazzo Barberini che portò alla nascita del partito dei socialisti lavoratori italiani. In entrambi i casi, la consapevolezza della mutata situazione politica in cui si era prodotta la loro elezione indusse i due uomini politici a rimettere l’incarico.

Non sono invece pagine di storia, bensì di recente cronaca politica, quelle che ci ricordano la scelta di due segretari di partito - Casini e Bertinotti - di abbandonare la guida delle loro formazioni politiche, a seguito dell’elezione a Presidente della Camera. Che si sia delineata, quindi, una vera e propria consuetudine costituzionale nel senso dell’incompatibilità tra il ruolo (politico) di capopartito e quello (istituzionale) di guida di una delle Camere parlamentari è dunque innegabile. E non potrebbe che essere così. Innanzitutto, perché l’articolo 88 della Costituzione prevede un parere obbligatorio dei presidenti delle Camere in ordine alla possibilità del loro scioglimento: un capopartito, quindi, potrebbe esercitare in modo non imparziale tale funzione. In secondo luogo, perché tra le responsabilità dei presidenti delle Camere vi è anche quella di nominare i membri di numerose autorità indipendenti.

In queste condizioni, dunque, la richiesta che Berlusconi e Bossi hanno rivolto a Napolitano non presenta alcun carattere eversivo.

Essa, infatti, mira a fare appello al «magistrato della persuasione» - così il capo dello Stato ha voluto definire, recentemente, il proprio ruolo - affinché induca Fini a desistere da un comportamento tanto pervicace, quanto illegittimo, sul piano della ortodossia costituzionale.
*Avvocato penalista

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