GOFFREDO PARISE Il mio Veneto barbaro

Il forte legame con il suo paese nelle fotografie esposte nella casa di Ponte di Piave

Ponte di Piave (Treviso)
Poco prima che Goffredo Parise morisse, Alberto Moravia andò a trovarlo nella sua casa di Ponte di Piave, vicino a Treviso. Nato a Vicenza nel 1929, un esordio critico sfolgorante con Il ragazzo morto e le comete, a poco più di vent’anni, il primo bestseller, Il prete bello, a venticinque, il Veneto di Parise era a lungo consistito in una rielaborazione della memoria fatta da un giovane scrittore che aveva scelto Roma, capitale del cinema, e Milano, capitale dell’editoria, come città d’adozione. Poi, negli anni Sessanta e Settanta, era venuta la grande stagione del Parise viaggiatore, i reportage dalla Cina e dal Giappone, le corrispondenze dal Vietnam, e la provincia della sua infanzia e della sua giovinezza era sembrata dovesse annegare nel grande mare dell’Altrove, in una sete di avventura dove il diverso e l’insolito, l’altro da sé e lo sconosciuto, la babele delle lingue, dei cibi e dei costumi concorrevano a disegnare un orizzonte geografico e fantastico sterminato e ancora tutto da esplorare.
Era stato intorno ai cinquant’anni che il Veneto era riapparso, o meglio, era tornato in superficie, perché sul fondo e nel fondo non se n’era mai andato, e Parise aveva fatto di Salgareda, sulla riva del Piave, il suo buen retiro. «Avvolto in un ampio verde disordinato, tra viti nane e alberi da frutto e alti pioppi e salici c’era un relitto di casa, una sorta di fienile quasi invisibile, coperto da un grosso gelso storto che gli stava di fronte. Decisi che avrei comprato quel fienile. Così passarono giorni e anni. Ero un uomo solo che viveva solo, felice e infelice come sempre capita. Stavo a Roma, ma sempre più spesso in quel luogo incantato dove l’ozio era popolato di compagnia animale, giorno e notte».
Poi nella vita di Parise apparve, improvvisa e brutale, la malattia, e lo scrittore la prese quasi come un affronto personale: se c’era uno assetato di fisicità questi era lui e ora, subdola e senza ritegno, ecco che quella gli avvelenava il sangue, gli toglieva le forze, gli negava la gioia, l’ansia e la fierezza del non dover dipendere da nessuno, dello star da solo, del nutrirsi della propria solitudine. Da rifugio Salgareda si trasformò di colpo in trappola, troppo isolata, priva di comodità e di sicurezza, ma, come si fa sempre quando si è caparbi e non la si vuole dare vinta, Parise non la lasciò completamente e si fece un’altra Salgareda poco lontano, a Ponte di Piave, appunto, più domestica e meno selvatica, egualmente spartana e tuttavia cittadina, immersa nella natura ma a contatto con la modernità.
È qui che in un giorno del 1986 Moravia suona alla porta: non si vedono da molto tempo, l’autore degli Indifferenti ha quasi ottant’anni e si è risposato da poco, si stimano e si vogliono bene in quel modo rustico e burbero, razionale ma anche sentimentale, che è proprio dei loro caratteri. Si chiacchiera, si fuma, anzi è Parise, che pure non dovrebbe, a fumare «continuamente, seduto di sbieco in una poltroncina». A un certo punto Moravia dice qualcosa della casa, che è bella, rossa, un giardino all’inglese che la circonda, la riproduzione di una statua di Brancusi, Mademoiselle Pogany, in mezzo all’erba. L’altro allora si alza, «con passo lento e affaticato mi viene vicino e mi dice in tono di scontento oggettivo e polemico, come se non parlasse di se stesso ma della casa: “Sì, ho una bella casa ma sto per diventare cieco”».
In quella frase, in quel tono, nel distacco che li accompagna c’è il Veneto di Parise, un Veneto grifagno e terragno, naturale e non raffinato, barbarico e vitale, pudico e segreto. «Mi chiedevo quale cultura potesse legare la solenne bellezza delle colonne palladiane, dei portici padovani, dei ponti veronesi, della scintillante Venezia con il suo ricciolo di ferro sulla punta delle gondole e i suoi pittori alla enorme quantità di piccole e grandi fabbriche del Veneto e non ne trovavo nessuna salvo una e una sola. La forza barbarica della terra, che ha prodotto lavoro di campi fino a ieri e ora produce lavoro nelle fabbriche. Ma era forza barbarica, a cui la mia stessa arte si nutriva, e non cultura latina e mediterranea. In fondo il Veneto ha avuto il suo riscatto, e la sua cultura popolare, dal mondo moderno, il mondo della produzione e del consumo. Altro che Veneto bianco, cattolico, bigotto, eccetera, i luoghi comuni della politica! E il Veneto era ed è forte, barbaro, e dunque produttivo e dunque industriale».
Adesso che nella casa di Ponte di Piave, divenuta per volontà del suo proprietario fondazione culturale, è esposta, in occasione del ventennale della morte, la mostra «Il Veneto di Goffredo Parise», una raccolta di immagini fotografiche di Lorenzo Cappellini accompagnata da testi scelti dello scrittore (fino al 20 ottobre), quel senso di appartenenza così particolare e così unico si chiarisce ulteriormente e assume anche una diversa profondità. «Fuori del Veneto per me è terra straniera e forse ostile. Non ho mai combattuto come altri possono aver fatto questo sentimento perché è veramente il più forte, né amo particolarmente i veneti e il solo fatto di essere veneti. Ci sono i buoni e i cattivi, per lo più sono piuttosto ignoranti, non mi sono particolarmente simpatici, ho pochissimi amici veneti. Ma il Veneto resta la mia Patria, perché vi sono nato: semplicemente».
Nella casa, i quadri di Guarienti, De Pisis, Klee e Schifano, le poltrone in vimini e i trumeaux in legno massiccio, la scrivania, il letto monacale e la macchina per scrivere rimandano a una scelta fotografica che privilegia gli scorci e la natura, i silenzi e le piste innevate, gli animali e l’imponente solitudine dei paesaggi lagunari. L’orizzonte veneto dello scrittore è fra Cortina e Venezia, Treviso e la campagna, la laguna e le valli da pesca ed è sempre e comunque un orizzonte solido e misterioso, isolato e malinconico, panico. Pochi hanno avuto come lui questa capacità sensuale di rendere i piaceri della vita fatti di contemplazione e di possesso, abbandono e ricordo, carnalità e delicatezza. Si sente sempre nella sua prosa una sorta di bramosia fisica e di senso estetico, un assaporare fino all’ultimo istante, un lasciarsi andare per meglio annullarsi e in qualche modo risorgere.

E tanto è squillante il possesso, tanto è lacerante il ricordo: «L’uomo partì da Venezia, passarono non molti anni da quel giorno di settembre e un altro giorno di febbre, in una clinica, era molto triste. Per consolarsi cantò con un filo di voce, ciò che venne fuori fu: La biondina in gondoleta, e l’uomo pianse perché riconobbe l’orchestra del Florian, la laguna ondolante e la dolcezza della vita».

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