Governi tecnici? Solo in Italia c’è chi osa proporli

La democrazia l’hanno inventata i greci, e infatti - nel pieno della peggiore crisi finanziaria che il Paese sta attraversando - nessuno ad Atene scende in piazza o va sui giornali a parlare di un «governo tecnico». Neppure in Spagna o negli Usa, figurarsi in Gran Bretagna. La vocazione della sinistra di scavalcare le urne come panacea di tutti i mali - rilanciata ancora ieri da Mario Monti sul Corriere della Sera - è una fissazione tutta nostrana. Una sorta di Italian job, un furto di democrazia in nome di un quanto mai vago «interesse generale».
Attorno a noi, nei Paesi occidentali a bipolarismo compiuto che a giorni alterni la sinistra agita come «modelli» a cui guardare, la parola «governo tecnico» non è neppure sul dizionario del linguaggio giornalistico, figurarsi nei discorsi dell’opposizione: in Grecia il suo leader Antonis Samaras vuol tornare a votare prima possibile, com’è legittimo chiedere pur sapendo che sarebbe economicamente disastroso. Il primo ministro greco George Papandreu ha deciso un piano di lacrime e sangue «per evitare al Paese il baratro della bancarotta». La sua popolarità è evidentemente al minimo storico, e i numeri in Aula sono risicatissimi ma ha avuto comunque la fiducia dopo il rimpasto di governo e la nomina del nuovo ministro delle Finanze Evangelos Venizelos, suo rivale storico nel Pasok.
C’è chi ha già fissato la data delle elezioni: quel Josè Luis Rodriguez Zapatero, ex icona della sinistra italiana. Dopo aver usato il machete sui dipendenti pubblici e aver fatto impennare la disoccupazione, ha capito di aver fatto troppi danni e ha mollato, tra i fischi degli indignados. A Madrid non c’è alcun saggio così folle da pretendere il potere senza passare dalle urne. Saranno il popolare Mariano Rajoy e l’ex ministro dell’Interno Alfredo Perez Rubalcaba a giocarsi la leadership del Paese, a novembre. Vinca il migliore.
Negli Usa Barack Obama resterà nella storia come il primo (e si spera l’unico) presidente degli Stati Uniti sonoramente bocciato in economia e con un Paese che ha sfiorato la bancarotta (la recessione forse no...). Si vedrà. È evidente che i Repubblicani chiedano la sua testa, ma in America si vota a fine 2012, e nessuno ha fretta di sostituire il tre volte senatore dell’Illinois con un «tecnico», fosse anche - per fare un esempio all’italiana - il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke. Al massimo ci si spinge a invocare legittimamente le dimissioni del ministro del Tesoro, Timothy Geithner, come ha fatto la deputata Michelle Bachmann, icona del movimento antitasse Tea Party e probabile candidata alla Casa Bianca.
Nel 2009 l’allora premier britannico Gordon Brown si presentò alle elezioni 2010 con un Paese devastato dalla crisi economica, dalla disoccupazione e dall’indignazione per lo spaventoso aumento di vittime inglesi nel pantano dell’Afghanistan, più di 100 in 365 giorni.

La credibilità della classe politica era pari a zero dopo lo scandalo dei rimborsi ai parlamentari, quello delle banche sotto zero come i conti in rosso dei contribuenti, «costretti» dal governo a salvare le banche mentre continuavano a regalare bonus milionari ai loro dirigenti. Ma nessuno a scrivere, neppure sui muri, la parola technical cabinet.

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