Governo al palo, un mese di parole in libertà

Politica estera, deleghe ai ministri, manovra, grandi opere e bioetica: primi nodi ancora irrisolti

Governo al palo, un mese di parole in libertà

da Roma

Il governo di Romano Prodi festeggia il trigesimo della sua formazione. Un mese molto lungo, un terzo di quei «cento giorni» che avrebbero dovuto dare la «scossa» all’Italia mostrandole che una nuova era stava iniziando. Per ora, la scossa l’ha presa solo il neonato esecutivo.
Un mese, e neppure un giorno di quella tanto citata «luna di miele» che dovrebbe arridere al debutto di ogni legislatura. «Un governo lento, una leadership latitante», titolava qualche giorno fa il suo editoriale il Riformista, quotidiano che certo vuol essere il grillo parlante del centrosinistra, ma che non può essere accusato di remare pregiudizialmente contro. «Cos’ha deliberato finora il governo? Su quali materie c’è stato un intervento diretto, concreto, dell’esecutivo che non sia solo una linea d’indirizzo, una cornice di intervento, una parola d’ordine?», si chiedeva. Non sul ritiro dall’Irak, ancora indefinito nei tempi e nei modi; non sulla missione in Afghanistan, sulla quale la maggioranza si accapiglia tra ritiristi e interventisti e il governo svicola e temporeggia sull’ipotesi di rafforzare il contingente italiano per non aizzare la rissa. Con un’unica certezza: il decreto di ri-finanziamento delle missioni italiane all’estero scade a fine mese, e il governo dovrà mettere la fiducia per reiterarlo se vuol tenere insieme la maggioranza. Non sull’economia, per la quale si moltiplicano ogni giorno ricette e richieste di singoli ministri o partiti (e sono nove, come ha dovuto spiegare Prodi a Zapatero sbalordendo il premier spagnolo), mentre sindacati e Confindustria strattonano l’esecutivo da una parte e dall’altra e non sono mancate tensioni neppure tra il premier e il suo ministro chiave Padoa-Schioppa, cui toccherà mettere nero su bianco le cifre di una manovra ancora tutta da definire. Con l’unica certezza che «sarà una medicina amara», come annuncia Prodi, e che probabilmente anche su quella toccherà andare avanti a colpi di fiducia. D’altronde, è bastata la prima prova al Senato sullo «spacchettamento» dei ministeri per capire che l’aula di Palazzo Madama, per quanto abilmente presidiata dal collaudatissimo Franco Marini, può trasformarsi ogni giorno in una trappola mortale. Per non parlare dei malumori che proprio quello spacchettamento ha prodotto nell’opinione pubblica più vicina all’Unione: se ne è accorto il prodianissimo Giulio Santagata, ministro per il Programma, che ieri ha dovuto fronteggiare le proteste inferocite della base ulivista convocata a Roma per lanciare il «cantiere» del futuro Partito democratico: «Perché due vicepremier e 102 sottosegretari? Siamo diventati peggio degli altri?», hanno inveito i delegati. «Non costeranno un euro in più», ha dovuto giurare Santagata.
Nel frattempo, è scoppiata la grana Grandi opere: «State certi che la Tav non si farà», ha allegramente garantito il sottosegretario all’Economia Paolo Cento. Chiamparino e la Bresso lo hanno mandato al diavolo, Fassino gli ha risposto che è «un’opera essenziale» e dunque si farà, la Margherita ha chiesto un «chiarimento» nella maggioranza, tutti hanno chiamato in causa Prodi, e Prodi ha taciuto.
Poi, volendo infierire, c’è la bioetica. L’Ulivo è andato in frantumi a Strasburgo sulla libertà scientifica: ds per il sì, Margherita per il no, compreso il fratello di Prodi («Ma io ho nove fratelli», si è giustificato lui lasciando intendere che magari tra i tanti qualcuno avrebbe votato diversamente).

A Roma è bastato che la ministra Barbara Pollastrini annunciasse la sua partecipazione al Gay pride ed evocasse i Pacs per far scoppiare la bagarre, coi cattolici dell’Unione sulle barricate e l’Udeur che vede nero: «O i ministri tacciono, o andiamo tutti a casa». E senza fare in tempo neppure a «mangiare il panettone», come pronostica Mastella.

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