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Il governo del Polo dimostra che il riformismo abita al centro

In principio il riformismo era il suo attributo naturale: il governo di sinistra avrebbe ammodernato il Paese, lo avrebbe cambiato nelle fondamenta, avrebbe dato una scossa salutare al sonno dell’italica ragione. Eravamo tutti in attesa: un giorno, al risveglio, ci viene annunciato un mondo diverso, fatto di taxi reperiti con facilità e a tariffe competitive; professionisti pronti a darsi spietata concorrenza con prezzi da saldo; ci vedevamo già gustare fragranti tocchi di pane, curandoci con medicine acquistate all’edicola.
Poi ci siamo ridestati: è trascorso il tempo del decreto Bersani sulle liberalizzazioni e abbiamo trovato che a Roma i taxisti sono rimasti gli stessi; abbiamo atteso mirabili cose nella Finanziaria e vi abbiamo trovato aliquote al rialzo e balzelli recidivi; abbiamo aspettato Caserta e, per ricordare una vignetta con la forza dell’editoriale politico, i suoi frutti sono stati una «natura morta».
Una volta tanto però lo scricchiolio si è avvertito e in modo conclamato: il professor Rossi esce dal suo partito; Calderola si mette in una posizione di aventiniana attesa. Diciamocelo: la sinistra riformista si è guardata allo specchio e non sa riconoscersi nel volto di un governo che è ostaggio di una politica artificialmente soporifera, che non è in grado di trovare una strada praticabile al riformismo. Quello vero, però. In realtà, come spesso accade nella politica italiana, i nomi hanno sostituito le cose, e così, in queste settimane, abbiamo assistito al dibattito, stucchevole e per certi versi surreale, su chi si diceva riformista e chi negava la qualità al compagno. Insomma, siamo andati chiedendoci chi fosse il riformista anziché cosa fosse il riformismo.
Ma forse proprio questa è la domanda da porsi. Nell’interesse di tutti. Se volessimo dirlo in una battuta il riformismo è la capacità di leggere i problemi, di realizzare una diagnosi delle cause e di trovare il percorso della soluzione e, soprattutto, di portarla ad effetto. E se si volesse essere conseguenti rispetto a tale definizione, l'esperienza di centrodestra è stata ampiamente più riformista: mercato del lavoro, previdenza, diritto societario, lavori pubblici, diritto fallimentare sono stati risultati conseguiti.
Potranno non piacere o si poteva fare meglio. Ma ci sono stati e continuano ad esserci. Invece, oggi continuiamo a chiederci fideisticamente chi sia il riformista, per grazia politica; non chi sappia diventarlo per le opere. Tutti lo rileviamo e tutti avvertiamo il disagio della domanda mal posta. E non è il caso di indulgervi oltre. Una cosa sembra però essere sfuggita ai più, salvo al ministro Damiano. Quando ha definito Rossi un estremista di centro, nei giorni scorsi, egli ha colto una verità profonda: oggi, nello scacchiere politico italiano, la capacità di riforma sta essenzialmente al centro. Chi cerca il riformismo praticato e cerca capacità diagnostica e progettuale deve guardare verso il centro dello schieramento politico: il luogo dove si coniuga capacità di rinnovamento e moderazione; spirito di innovazione e ragionevolezza. E sembra averlo capito anche la parte dei Ds, di area dalemiana, nella quale più forte è la percezione delle esigenze di rinnovamento del Paese e il desiderio di realizzarlo senza inutili e dannose fratture.
L’esperienza del tavolo dei volenterosi è stato un laboratorio piccolo ma significativo, in questo senso.

Si è detto che ha voluto essere una cattiva specie di governo ombra: la critica è ingenerosa; e se è stato un’ombra non ha vissuto dell’opacità del suo referente; è stata piuttosto un’ombra come quella di Peter Pan, che vive di vita propria e che costringe all’azione. Forse è lì che Rossi e tutti coloro che hanno a cuore il riformismo delle opere devono venire. Al centro.
*Portavoce Udc

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