L’omaggio non è rituale: «Sa come lo chiamava Henry Kissinger?
Come? «My favourite communist, il mio comunista preferito».
Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera e dirigente di Forza Italia, ricorda un altro episodio della lunga biografia di Giorgio Napolitano: «Fu fra i primi comunisti a cui gli americani diedero il visto d’ingresso in un’epoca in cui Botteghe oscure dipendeva da Mosca».
Re Giorgio, fu ribattezzato.
«Una figura imponente che qualche volta è rimasta intrappolata in una visione di parte, in molte occasioni invece ha saputo trovare una sintesi per il bene del Paese».
Per esempio?
«Sulla giustizia, capitolo incandescente per tanti anni. Napolitano e i miglioristi avevano posizioni non legate a schemi di parte, soprattutto avevano compreso bene la svolta giustizialista di alcune frange della magistratura».
Con Berlusconi però andó in un altro modo.
«Credo sia stata un grande occasione persa».
Si riferisce alla mancata concessione della grazia dopo la condanna definitiva per frode fiscale nel 2013?
«Certo, quello era il momento in cui dopo vent’anni di duelli e polemiche, il presidente avrebbe potuto portare per mano il Paese verso la pacificazione».
C’era una sentenza definiva di condanna. Come si poteva mettere fra parentesi quel verdetto?
«Uno dei giudici di quel collegio, non qualcuno di Forza Italia, parló di un plotone di esecuzione. C’erano tutte le premesse, secondo me, per trovare una via d’uscita onorevole per tutti, ma Napolitano non se la sentì e la trattativa morì sul nascere perchè vincolata a richieste impossibili: il provvedimento di clemenza in cambio di un’uscita di scena del Cavaliere. Inaccettabile e infatti non se ne fece nulla. Peccato, perché Napolitano era un personaggio autorevole, capace con il suo carisma e la sua biografia di far compiere un passo in avanti all’Italia. Come invece fu in altre circostanze, quando spinse il suo partito verso il Patto Atlantico e la Nato».
Un campione della democrazia in un Pci che non aveva abbandonato del tutto il mito della Rivoluzione?
«Si. E la conquista di certi valori non fu automatica. Possiamo dire che Napolitano fu uno degli artefici, dopo Berlinguer, della progressiva evoluzione del Pci e del suo affrancamento da Mosca e dall’Unione sovietica».
Poi c’è naturalmente un altro snodo della vita italiana in cui il Presidente della repubblica gioca un ruolo decisivo e ancora una volta si torna a Berlusconi e alla fine del suo governo nel novembre 2011.
«Quella fu una congiura, esemplificata dal sorrisetto sardonico della Merkel e di Sarkozy, con la sponda del Fondo monetario internazionale».
L’Italia attraversava una crisi finanziaria fortissima.
C’erano alternative?
«L’Italia fu spinta verso il baratro».
Napolitano?
«Si piegò a queste istanze e confezionó un ruolo su misura per Mario Monti. In pratica, Berlusconi fu costretto a lasciare Palazzo Chigi».
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