Il gran pignolo del cinema si merita un libro certosino

Su Stanley Kubrick, sul suo genio, sul suo temperamento sanguigno e intrattabile, sulla sua eterna indecisione e soprattutto sull’incredibile lentezza con la quale pianificava i suoi progetti costringendo amici di sempre e collaboratori occasionali alla più penosa delle sudditanze, è già fiorita una leggenda. Ma nessuno aveva mai indagato con la pazienza di un entomologo sul suo modus operandi una volta che, finito il film, si trattava di «venderlo» al miglior offerente. Che non erano solo il produttore e il columnist di grido ma anche l’esercente dell’infimo locale periferico e il tirapiedi del foglio parrocchiale. Per non parlare di tutti quegli additivi cartacei che sono gli ingredienti massimi della pubblicità. Dato che il Nostro pianificava tutto da sé senza ascoltare nessuno. Al punto che manifesti, locandine o il più banale foglio illustrativo oltre alle foto di scena, a volte truccate nella grafica o di proposito alterate nei colori e nelle forme, oggi vengono a configurarsi non come innocui veicoli di propaganda ma come vere e proprie connotazioni d’autore che arricchiscono il tessuto connettivo del film.
È ciò che dimostra l’impressionante documentazione raccolta dal regista palermitano Umberto Cantone nelle Carte di Kubrick, il bel volume da poco pubblicato da Sellerio (pag. 180, Euro 35). Che non solo riproduce con cura maniacale il corredo offerto allo spettatore come indispensabile guida alla decifrazione della pellicola ma, ricostruendo il tracciato che dall’idea originale fino allo script ne dettava la realizzazione, traccia per la prima volta (e non solo in Italia) l’iter maniacale prediletto da Stanley. Che era ossessionato dai materiali confluiti ab aeterno nei suoi capolavori ben oltre la loro definitiva messa a punto.
Sapevate, per esempio, che Kubrick all’epoca di Orizzonti di gloria, per marchiare a lettere di fuoco l’acceso antimilitarismo della sua creatura prediletta, decise che nella brochure originale, divisa in quattro scomparti, tra il profilo di Kirk Douglas e il tamburo percosso da una mano invisibile, in un riquadro figurasse la corda dell’impiccagione e in un altro la tremenda immagine dei soldati immolati dall’ottusità del potere? E cosa mi dite di quei cineromanzi di nostra fabbricazione andati a ruba nei primi anni Sessanta? Quando Noi donne, testata princeps dell’Unione donne italiane emanazione diretta del Pci, sottolineava che in Spartacus, manifesto della sinistra quant’altri mai, la rivolta antischiavista era il frutto sublime dell’amore?
Un dato che va ben oltre la curiosità del fatto di costume, dal momento che i film di Kubrick han dato origine a un’abnorme silloge di disparate quanto arbitrarie creazioni. Si pensi a ciò che accadde nel’76 quando, ben otto anni dopo l’apparizione di 2001 Odissea nello spazio, un genio dei cartoons come il re dei fumetti Jack Kirby decise dopo anni d’inattività di tornare al lavoro. Alterando in modo irreparabile nei suoi meravigliosi disegni sia il soggetto che il messaggio implicito nell’opera di Kubrick. Traendo spunto per il suo singolare adattamento non tanto nel racconto di Clarke La sentinella o nel romanzo che, a lavorazione ultimata, lo stesso Clarke firmò con l’inesorabile Stanley ma dalla propria illimitata esperienza di scrittore pulp.

Inserendo a commento del suo eccitante manufatto, come ci comunica Emiliano Morreale in uno dei saggi più acuti del volume, una quantità di dialoghi a malapena arginati dal flusso delle immagini. Finendo per rimanere vittima della più triste delle illusioni: quella di superare nell’album per immagini il coloratissimo appeal delle deliranti visioni del Cinemascope.

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