Ah, l’Italia, «un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore universale, cedendola al più logoro principio borghese - la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese - un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale d’una volta) e per di più pieno di debiti non pagati...». Non è Bossi che parla né suo nonno. E non è nemmeno Pino Aprile, l’autore anti-sabaudo di Terroni. Ma è un osservatore esterno, molto esterno, e speciale, molto speciale. Che non polemizza con Napolitano, stroncando il suo libro Una e indivisibile (stroncare il libro di un Presidente della repubblica è diritto di critica o vilipendio del capo dello Stato?). Ma addirittura con Cavour, di cui pure riconosce la genialità ma applicata ad una causa indegna e piccina. L’irriverente italoclasta è addirittura Fëdor Dostoevskij. L’appunto che ho citato è nel suo Diario di uno scrittore nell’anno di grazia 1877. Dostoevskij non è un detrattore dell’Italia ma un sostenitore convinto dell’Italia universale e non statuale, o per dirla con Herder, dell’Italia come nazione culturale, non politica.
Non è bello concludere il compleanno d’Italia, ovvero l’anno in cui l'Italia ne ha compiuti 150, con questa nota aspra e feroce. Ma Dostoevskij amava l’Italia e ci era venuto in pellegrinaggio culturale e spirituale. Ne parlava con cognizione di causa e amore d’Italia. Nello stesso testo, Dostoevskij osservava: «Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo; l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano di essere i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e le presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale». Tutto barattato per una piccola unità statuale? In fondo Dostoevskij abbracciava da russo e ortodosso, l’idea cattolica e giobertiana del primato mondiale e civile d’Italia che trascendeva dalla sua unificazione statuale, anche se la prefigurava.
Lo scrittore russo era tutt’altro che vicino a una visione internazionalista, di tipo socialista e utopico, che condanna per il suo astratto universalismo. Nell’anno dell’Unità d’Italia, il 1861, Dostoevskij fondava una rivista, Vremja (Il tempo) che era tutta percorsa da un fremito di patriottismo russo e slavofilo e da un rifiuto dell’occidentalismo come omologazione mondiale. La romanità come principio universale, l’imperium come principio ordinatore del mondo e la cristianità che si fa cattolica - cioè universale - a Roma, erano per lui il paradigma dell’unità spirituale del mondo. A cominciare dalla Terza Roma degli Czar (contrazione russa di Cesare, non a caso). Anzi, la sua idea è che sarebbe stata la Russia «a condurre a conclusione la missione dell’Europa», come scriveva in una lettera dell’inverno 1856 a Majkov. In una pagina assai attuale Dostoevskij lamenta la subordinazione dell’Europa alla Borsa e al credito internazionale; ma poi spende la sua vena profetica in un delirio antigiudaico, ritenendo che siano gli ebrei a muovere la borsa, le banche e i capitali, condizionando gli Stati nazionali. («Non per nulla dominano là ovunque gli ebrei nelle Borse, fanno muovere i capitali, sono i padroni del credito e della politica internazionale» scrive nel marzo del 1877, per poi concludere con una filippica contro il giudaismo).
Dostoevskij scrive sull’unità d’Italia a ragion veduta, serbando la memoria dei suoi viaggi in Italia in cui rimase abbagliato dall’arte e dalla civiltà italiana, le rovine pagane e lo splendore medioevale, rinascimentale e barocco dellla Roma cattolica e apostolica. Visita l’Italia, e arriva a Torino quando era capitale e poi scende a Roma, di cui soffre il gran caldo settembrino e si estenua a percorrerla a piedi, in una intensa settimana di bellezza. Qualche anno dopo vi ritorna, prima a Milano e poi a Firenze, nel breve periodo in cui era capitale d’Italia. E si arrabbia con i russi che spargono da noi «i loro rubli in carte di credito» e le russe che «puttaneggiano con i principi Borghese». Un quadro di sorprendente attualità, che sembra alludere al nostro presente, principi Borghese a parte... Al suo tempo riguardava la nobiltà russa, ora invece i nuovi ricchi della Russia postsovietica e le avvenenti russe in cerca di sistemarsi o sfondare.
Non sposiamo affatto l’idea negativa di Dostoevskij sull’unità d’Italia, e continueremo a considerare nobile e degna la causa a cui si dedicò il conte di Cavour. Difenderemo la memoria del Risorgimento, che è la traduzione civile e nazionale della Risurrezione, cara a Dostoevskij forse più che a Tolstoj. E senza cancellare le pagine infami scritte dopo l’Unità, i massacri e le deportazioni, continueremo a difendere la nascita necessaria e benefica dello Stato Italiano, la sua indipendenza e il suo sviluppo che integrò il popolo nella nazione.
Ma è giusto concludere l’anno dell'italianità ritrovata (e subito ri-smarrita), ricordando che l’Italia nazione culturale è universale e millenaria, mentre l’Italia politica e risorgimentale è domestica e secolare. Italia, grande nazione in piccolo Stato. L’Italia dell’unità evoca uno Stato, l’Italia della tradizione evoca una civiltà.
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