Quando Giorgio Napolitano fu eletto la prima volta, nel 2006, l'Italia non sapeva di essere alla vigilia di un terremoto economico-finanziario-politico che sarebbe cominciato da lì a due anni. Già, perché il contesto storico nel quale si muove la presidenza Napolitano è quello della gravissima crisi economica internazionale che ha preso le mosse tra il 2007 e il 2008 negli Stati Uniti. Quella del crac di Lehman Brothers per capirsi. Una crisi che viviamo ancora oggi e che da economica s'è trasformata in crisi politica.
Le precarie condizioni della finanza pubblica globale sono al centro delle scelte di tutti i leader del pianeta. Molti di loro ne hanno pagato le conseguenze politiche: in Spagna le dimissioni di Zapatero, in Francia la sconfitta e il tramonto politico di Sarkozy, in Italia le dimissioni forzate di Berlusconi del novembre 2011. Lo scenario della seconda metà del settennato di Napolitano e dell'inizio del suo storico secondo mandato è esattamente questo: il mondo è alle prese con una crisi che non ha ancora capito come gestire e che è alla base di ogni scelta che governanti e capi di Stato fanno in questo periodo. È inevitabile, quindi, che quando in futuro si parlerà del periodo Napolitano lo si farà coincidere con la crisi che sta modificando fino all'osso l'essenza di alcune istituzioni tradizionalmente immutabili: una di queste è proprio il Quirinale. Da garante dell'unità nazionale e dell'equilibrio governo-Parlamento, il Colle è diventato un vero soggetto politico, decisionista e centrale nelle scelte che i rappresentanti di governo fanno, specie se queste riguardano i rapporti con gli altri Paesi. Si è assistito così, per la prima volta nella storia repubblicana a un presidenzialismo di fatto: Napolitano ha più di ogni suo predecessore avuto un ruolo centrale nella complessa trattativa politico-diplomatica che riguardava le scelte di politica economica che il governo (specie quello guidato da Mario Monti) ha fatto.
Contemporaneamente, e per certi versi anche paradossalmente, il dato che sta caratterizzando il periodo storico che stiamo vivendo è quello della cessione di sovranità da parte dei singoli Paesi alle istituzioni internazionali: mai come in questi ultimi anni e in questi ultimi mesi l'Unione Europea, la Banca Centrale Europea, il Fondo monetario internazionale dettano le loro regole e le loro condizioni: questo pone governi e capi di stato di fronte alla spiacevole sensazione che prova il passacarte. Lo stesso Napolitano, solo pochi mesi fa, disse in un discorso che i Paesi dovevano cominciare ad abituarsi all'idea di cedere pian piano pezzi di sovranità per stare all'interno di quel meccanismo di agglomerati di nazioni che tiene (o vuol tenere) in equilibrio il mondo. Parliamo del progetto ambizioso ma molto rischioso degli Stati Uniti d'Europa che aleggia sulle nostre teste. A renderlo difficile c'è l'onda anti-euro che sta crescendo in tutto il Continente: un malcontento che genera tentazioni di indipendentismo economico e di fuoriuscita dalla moneta unica. È del tutto evidente che senza euro, il progetto di Stati Uniti d'Europa non ha senso.
L'altro tassello essenziale dell'era che stiamo vivendo e che coincide con il primo e il secondo settennato di Napolitano, è la crescita delle nuove potenze economiche che mettono a dura prova la tenuta del vecchio blocco occidentale costituito da America ed Europa. Cina, Brasile, India, Corea, Russia, Turchia: Paesi che crescono e che prendono sempre più potere. Con loro stiamo facendo i conti. Con loro bisognerà fare i conti.
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