Grassi per colpa degli amici «I vizi contagiosi come virus»

Facile dire il vizio è solo mio. Facile dire: lasciatemi stare, fumo?, fatti miei. Mangio patatine al posto dell’insalata?, peggio per me. No, no. È peggio per tutti, specialmente per gli amici. Che sarebbero i più influenzabili dalle cattive abitudini. Nessun uomo è un’isola: ecco, allora se i tuoi amici sono dei patiti di cibo spazzatura, aspettati che presto la campana (quella dell’allarme valori del sangue sballati-peso esagerato) suoni molto presto anche per te.
È chiaro, John Donne non è che pensasse a minuzie di questo tipo, e probabilmente nemmeno considerava i suoi simili degli untori, spargitori di peccato e di comportamenti esecrabili, ma gli studiosi non fanno poesia, producono numeri: e le ricerche dicono che il contagio c’è, che esiste un rapporto di causa-effetto fra i modi di vivere di chi è legato, socialmente parlando. Per esempio: se tizio nomina tale fra i suoi amici (ma non viceversa), quando tale ingrasserà, tizio avrà il cinquantasette per cento di probabilità di aumentare pure lui di peso (e non viceversa). L’hanno dimostrato Nicholas Christakis e James Fowler, studiosi di scienze sociali rispettivamente a Harvard e all’università della California: sono loro i pionieri in questo campo, ora però messi sotto accusa. E il dito è puntato proprio contro i numeri: un matematico dell’università dell’Indiana, Russell Lyons, sostiene che la statistica non provi affatto il contagio. Per esempio, nel caso citato sopra, anche se tale non ha citato tizio fra i suoi amici, ha comunque il tredici per cento di probabilità in più di diventare obeso. Ma non è soltanto un litigio fra professori, non è una semplice battaglia di tabelle, seppure finita in prima pagina sull’Herald Tribune. È l’approccio ad essere contestato: cioè se sia davvero possibile calcolare con certezza, quando si osservano i comportamenti delle persone; o se piuttosto i risultati di questi studi non siano soltanto ipotesi, non verificate e soprattutto non verificabili.
Logico che i pionieri Christakis e Fowler si siano risentiti: sostengono di aver rispettato tutti i canoni scientifici. Si è trattato - dicono - di una scoperta vera e propria: fra gli amici (vicini e alla lontana) ci sono gli stessi livelli di obesità. E questo non si spiega con il principio del «simile con simile», e nemmeno con la vita in un ambiente comune. No, dipende proprio dal contagio: perché l’idea di quanto cibo sia giusto mangiare, e quale sia un peso «accettabile», dipende da quanto mangia e quanto pesa chi ti circonda. Lo stesso vale per le sigarette, le droghe, l’alcol: abitudini che si trasmettono per via sociale, come i virus. E quindi - secondo gli studiosi - si possono in qualche modo controllare: basterebbe un piccolo gruppo per spingere gli altri ad abbandonare la cattiva abitudine. Prospettiva allettante per la sanità pubblica, corollario inquietante per tutti gli altri, viziosi e aspiranti tali. E poi lo stesso discorso vale per l’umore: anche la depressione, la malinconia e la felicità sono contagiose in una cerchia di amici. E allora? Piazziamo un paio di persone sempre contente in ogni ufficio, magari alle poste? Oppure isoliamo chi è troppo musone o chi mostra troppa passione per gli alimenti ipercalorici? Il rischio è servito, a portata di moralisti e salutisti vari: se il modo di vivere è prevedibile, influenzabile, calcolabile, allora chi si comporta male diventa una specie di untore da emarginare.

Insomma i numeri non sono chiari, ma forse è meglio che gli scienziati continuino ad arrovellarsi, e a dare risposte un po’ confuse. Meglio proseguire nella ricerca, chissà poi, a comportarsi bene o male, che cosa ne uscirà.

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