Grazie a un leccese i Matarrese tornano Kennedy di Bari

I Matarrese non finiscono mai. Esce Antonio, entra Vincenzo. Ce n’è sempre uno, a volte due: perché devono per forza bastare 32 anni nel pallone? No, non è finita. L'ha detto Tonino l'altro giorno: «Starò nel calcio fino a quando non mi chiamerà il signore». Da solo o in compagnia della famiglia, in Lega o al San Nicola. Il Bari in A significa che l'ultima dinastia pallonara c'è ancora al di là dello spazio e oltre il tempo. Gli altri della loro epoca sono finiti tutti: Fraizzoli, Pellegrini, Farina, Boniperti, Anconetani, i conti Pontello, Viola, Scibilia, Ferlaino, Lugaresi. I Matarrese c'erano. I Matarrese ci sono: hanno resistito alla fine della Democrazia cristiana, alla dinamite che ha sbriciolato Punta Perotti, al sali e scendi tra A e B, ai diritti tv, all'arrivo di nuovi padroni e di nuovi sistemi. I Kennedy di Puglia, infiniti e onnipresenti. Sempre con lo stesso accento e quella parlata veloce, con i vocaboli mangiati uno dietro l'altro, con un sorriso beffardo e con l'aria di chi sa come muoversi. Hanno avuto e hanno perso, hanno riperso e hanno ripreso.
Un passo indietro forse, due avanti di sicuro. Otto anni dopo riportano Bari in A, rientrano nel pallone vero. Si rinasce ancora. Costruttori di palazzi, di potere e di sogni: «Un tufo qua un altro là fino alla fine ce la dobbiamo fà», dicevano due comici che facevano la parodia dei fratelli. Ce l'hanno fatta, adesso. Ce l'hanno fatta prima: uno diceva «Presidente Matarrese» e qualcuno si voltava sempre, perché Antonio ha avuto prima il Bari, poi la Lega calcio, poi la Federazione, poi l'Uefa, poi la Fifa. C'erano sempre i fratelli accanto. Si lanciò in politica prima e nel pallone poi. Deputato Dc, con un pacchetto di 62mila voti nel 1976. A portarlo dentro fu il padre, in un colloquio con l'amico Aldo Moro che cercava un candidato forte per la circoscrizione di Bari-Foggia: «Mio figlio Tonino è ambizioso, la Puglia gli sta stretta. E poi ha studiato». Onorevole Matarrese era un altro bel modo di farsi chiamare. Il calcio lo aiutò. Era il 1977 quando comprò il Bari insieme con i fratelli. Lo prese per sfida e per una specie di dovere nei confronti della città. Perché loro, i Matarrese, erano ospiti. Venivano da Andria, che non è proprio la stessa cosa. Bari è una città di quelle che vedono con sospetto i provinciali. Il pregiudizio non è mai finito e forse mai finirà perché questa città a volte sa essere irriconoscente come poche. Bari oggi sopporta senza motivo, perché senza i Matarrese il pallone forse non ci sarebbe più. Eppure che vinca o che perda, c'è sempre quella canzoncina che è diventata quasi un canto popolare: «Finché vivrò odierò i Matarrese».
Il ritorno in A è uno schiaffo morale, allora. Una rivincita. Tonino comprò la squadra dopo aver consultato il resto della famiglia. La leggenda racconta una scena da romanzo: i figli che annunciano l'acquisto della squadra e concludono con un messaggio rivolto al ritratto gigante del padre affisso sulle pareti: «Papà, speriamo di aver fatto bene». Oggi non si sa che cosa pensino. Allora quella mossa fu il trampolino definitivo di Antonio. Fu scelto lui come presidente: «Voglio fare del Bari la Juventus del Sud». La prima A dell'era Matarrese arrivò quando aveva già lasciato tutto al fratello, spinto verso la fama nazionale. Nel 1980 nominato consigliere federale della Figc, nell'82 l'elezione a presidente della Lega calcio, nell'88 quella alla Figc. Periodo di costruzione di Italia '90. Una meraviglia. Quegli anni sono stati i più belli: un fratello a Roma, uno a Bari, l’altro, vescovo, a pregare per tutti; uno a capo del pallone italiano, l'altro a capo del pallone di casa. I Matarrese hanno donato a Bari uno stadio da fantascienza, l'astronave che planava su disegno di Renzo Piano. Fu l'inizio di una città lanciata che ospitò il mondiale '90, la finale di Coppa dei Campioni del 1991, i Giochi del Mediterraneo del 1997.
La politica, poi. Nel 1992 si votava di nuovo. «A Bari nessuno è straniero», lo slogan di Tonino. Riprendeva gli sbarchi degli albanesi del '91, il mondiale appena finito e che aveva ospitato Romania, Unione Sovietica, Camerun, Italia, Inghilterra. Riprendeva anche se stesso: uno di Andria che finalmente a Bari non era straniero. In quel periodo si poteva fare tutto: Vincenzo pensò di portare la squadra in Uefa. Prese Platt, poi Boban e Jarni, finì in B. Troppe pretese, poca grazia. È sempre stato un saliscendi il destino dei Matarrese. E l'emotività della loro terra ha sempre seguito i risultati e le scelte. Bari non gli ha mai perdonato di non aver investito i 50 miliardi ottenuti per la vendita di Cassano. Poi c'è stata Punta Perotti. I Matarrese hanno pensato di mollare il pallone e poi non l'hanno fatto. S'è parlato di imprenditori del nord e di strani oligarghi russi, di presunti prestanome di altrettanto presunti industriali. Una bufala dietro l'altra, per infastidire i Matarrese, per stuzzicarli, per farli uscire allo scoperto. Sempre quel maledetto senso di diffidenza per loro, per i forestieri. Il pallone a Bari è quasi morto prima di risorgere. Otto anni di B, una retrocessione in C sventata con un ripescaggio, l'anonimato, l'apatia: 64 paganti in uno stadio da 58mila posti.

Non era cosa per i Matarrese, questa. Vincenzo ha preso Conte, un leccese. È arrivato tra i fischi e lo stadio vuoto, se ne andrà da fenomeno con 50mila paganti e la serie A in tasca. Uno di Lecce e uno di Andria: a Bari nessuno è straniero.

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