Grecia, slitta ancora l’intesa anti-crac

Riunioni-fiume, trattative sempre più serrate, un lavoro certosino di limatura ai documenti, ma ancora nessuna firma. Slitta un’altra volta l’accordo tra il governo greco e la troika di Ue, Bce e Fondo monetario internazionale sull’adozione di nuove e più stringenti misure di austerity, necessarie per ottenere ulteriori aiuti per 130 miliardi di euro. La maratona negoziale tra il premier Lucas Papademos e gli 007 di Bruxelles e Washington, iniziata lunedì e poi ripresa nel tardo pomeriggio di ieri, ha prodotto soltanto una bozza d’accordo, e l’allungamento dei tempi ha impedito che il documento venisse sottoposto per la firma ai tre partiti che sostengono l’esecutivo.
Tutto dovrebbe insomma essere rimandato a oggi, quando i leader del Pasok, di Nuova Democrazia e del partito di estrema destra Laos si ritroveranno a mezzogiorno seduti attorno allo stesso tavolo per valutare se accettare i sacrifici imposti. Il sì renderebbe possibile sottoporre domenica prossima le misure al Parlamento. Papademos ha già concordato con la troika il taglio di 15mila dipendenti dell’ipertrofico apparato statale, nell’ambito di un piano che prevede entro il 2015 lo sfoltimento di 150mila dei 750mila lavoratori del pubblico impiego. È ancora da verificare, invece, se il memorandum di una quindicina di pagine stilato ieri, preveda gli stessi provvedimenti indicati dalle indiscrezioni circolate in questi giorni: ovvero la ricapitalizzazione del settore bancario, la riforma del mercato del lavoro e del sistema pensionistico, oltre a una riduzione del 20% dei salari minimi, oggi pari a 751 euro. Tredicesime e quattordicesime dovrebbero essere risparmiate.
Una manovra-monstre per un Paese già in ginocchio, debilitato da una pesantissima recessione (-5% nel 2011) e percorso da crescenti tensioni sociali ben visibili ieri nell’ennesimo sciopero generale che ha portato alla serrata di servizi pubblici, trasporti, tribunali. musei e scuole. Un Paese paralizzato, e sul baratro del default. Una parola che non sembra più un tabu nemmeno per l’Europa. L’uscita di uno Stato dall’area euro «non causerebbe alcun morto», ha detto la commissaria Neelie Kroes, costringendo il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, a una presa di posizione ufficiale: «Vogliamo che la Grecia resti nell’euro».
Ma a dispetto dell’ottimismo espresso ieri perfino dalla solitamente abbottonata Angela Merkel, che ha indicato come possibile per domani il vertice tra i ministri delle Finanze dell’Eurozona più volte rinviato, e dai mercati (+0,62% Milano, positive anche Parigi, Amsterdam e Atene, invariata Londra e in lieve calo Francoforte; spread a quota 363, minimo da metà ottobre), la cautela è d’obbligo. All’appello non manca soltanto il tassello dell’accordo con Ue e Fmi, ma anche quello sulla ristrutturazione del debito. Ieri Papademos ha infatti dovuto giostrarsi su due fronti: concluse le riunioni con la troika, il premier si è poi incontrato con Charles Dallara, il rappresentante dei creditori privati che dovrebbero accettare una perdita sui sirtaki-bind posseduti del 70%. Una cifra che, comunque, potrebbe non bastare. Così da un lato si sta cercando di convincere anche la Bce (finora senza successo) ad accollarsi parte delle perdite sui titoli, per evitare di aumentare di altri 15 miliardi il piano di salvataggio Ue-Fmi.


L’evolversi della crisi greca viene intanto seguito con grande attenzione anche dal presidente della Fed Usa, Ben Bernanke: «Siamo pronti ad adottare tutte le misure necessarie per proteggere» l’economia Usa dalla crisi del debito europeo.

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