Un Grillo americano nella corsa alla Casa Bianca

Iscritto alle primarie della South Carolina, uno degli Stati chiave E su internet ha già 880mila tifosi

L’antipolitica americana fa ridere: «Mi candido sia da repubblicano sia da democratico. Così ho la doppia possibilità di perdere». Stephen Colbert è un Beppe Grillo che non urla. Sogghigna, ironizza, dileggia. Infastidisce senza offendere: è entrato nella corsa delle presidenziali 2008 per destabilizzarla con una smorfia. Lui per tutti e contro tutti: s’è iscritto alle primarie di entrambi i partiti perché così è più facile boicottare. Senza un programma, senza una campagna, senza uno slogan.
È contro per il gusto di irridere gli altri, perché ha visto John Edwards spendere ottocento dollari per un taglio di capelli pre-comizio e ha pensato che se la politica vera diventa una commedia dell’assurdo, un comico può giocarsi la sua partita. Quella di Colbert non ha neppure un obiettivo forte: «Non voglio vincere, voglio solo candidarmi». Vale doppio, perché è il disturbo per il disturbo, è l’idea di rottura di uno schema, è satira in presa diretta.
L’America forse si vuole divertire un po’: in una settimana, Stephen è salito al 13 per cento delle preferenze in una sfida a tre con il repubblicano Rudy Giuliani e la rivale democratica Hillary Clinton. La società di sondaggi Rasmussen ha chiamato un campione di americani del South Carolina e gli ha chiesto se voterebbe per l’attore che ogni sera compare sugli schermi di Comedy Central con la parodia di una trasmissione di approfondimento conservatore. Qualcuno s’è messo a ridere e però poi ha detto sì. Colbert è un personaggio: per Time nel 2006 è stato uno dei cento americani più influenti. Due anni fa il direttore del New Yorker, David Remnick, lo andò a trovare negli studi del suo show a New York. Si trovò di fronte un ragazzo cresciuto, che adora la politica da sempre e che in nome di quell’amore si diverte a triturarla con la satira. Come alla penultima cena dei corrispondenti della Casa Bianca: Stephen era l’ospite invitato per far ridere. Si presentò sul palchetto e fece il suo breve monologo rivolto a Bush: «Sto con quest’uomo. È un uomo che sta per qualcosa. A volte sta su qualcosa. Cose come ponti di portaerei, macerie, piazze di città recentemente devastate da alluvioni. E questo manda un messaggio forte: non importa quel che succede, l’America rinascerà sempre con la più potente photo opportunity sceneggiata del mondo». In un colpo solo, in trenta secondi scarsi, ha messo in ridicolo il Presidente per essere salito sulla portaerei Lincoln con lo striscione «Missione compiuta», per il comizio improvvisato a Ground Zero e per l’arrivo in ritardo sui luoghi dell’uragano Katrina. Dopo quell’uscita gli ascolti del suo spettacolo quotidiano sono cresciuti del 37 per cento.
Colbert era simpatico agli intellettuali di sinistra affascinati dal suo sarcasmo anti-destra. Ha cominciato a stare antipatico anche a loro: ha già preso di mira Hillary Clinton, Barack Obama e John Edwards. Ora piace alla gente, Stephen. Piace perché è uno normale. È l’ultimo di undici figli di una casalinga e di un medico. Cattolico ed ex maestro di catechismo, ha perso il papà quando aveva dieci anni: morì in un incidente aereo con due dei suoi fratelli. Ha studiato scienze politiche poi è andato all’università e lì s’è iscritto al corso da attore per imparare a ridere e poi cercare di insegnarlo agli altri. S’è preso la tv, poi uno show tutto suo. Adesso la politica. In sette giorni da candidato ha avuto un’attenzione che nessuno poteva immaginare: un’ora in diretta su Meet the press, il più compassato dei talk show della televisione americana. E poi un’editoriale del New York Times, uno del Los Angeles Times, le riflessioni di un centinaio di blog politici. Un gruppo di seguaci ha aperto sul Facebook la pagina Un milione per Stephen Colbert. In una settimana ha raccolto già 880mila iscritti: ora è nettamente il gruppo politico più popolare del sito d’aggregazione. Gli analisti sono rimasti spiazzati, i professoroni come il politologo Alan Abramowitz fanno finta di non vederlo: «Probabilmente è una espressione di protesta. Una volta in cabina per le primarie la gente sa che un voto del genere è chiaramente sprecato».
La gente invece ci sta. Anche i politici locali: domenica nella città di Columbus ha organizzato lo Stephen Colbert Day, che è la versione americana e più raffinata del VaffaDay: festoni, volantini, comizio. «Grazie amici della South Carolina». È lì che si candida Colbert: è il suo Stato, ma è anche una tappa chiave nella maratona elettorale.

Si vota il 26 gennaio, pochi giorni dopo l’esordio assoluto delle primarie previsto nello Iowa il 3 gennaio. Il Grillo d’America non può vincere e neppure vuole: «Non mi interessa la Casa Bianca, ma le elezioni». Antipolitica pura. Però ha scelto il suo vice: «Accanto a me voglio Vladimir Putin».

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