Chi tocca i pentiti di mafia muore. Se ti azzardi a dire che vanno presi con le pinze, sei amico del giaguaro. Se ricordi che in tanti hanno sparato false accuse, cerchi il pelo nelluovo. Se dici che puntano ai soldi e a farla franca e sono perciò in balia di chi li utilizza, sei un traditore della patria. Se trovi pazzesco che un brigante ti tiri in ballo a Palermo e tu che stai a Milano ci resti impiccato sulla parola, sei mafiosetto. Se poi addirittura vuoi cambiare le cose - pretendi un freno alla fantasia e verifiche serie - il minimo che ti possa capitare è che ti zittiscano guardandoti storto.
È successo al senatore pdl, Giuseppe Valentino, penalista di grido. Ha presentato un ddl per abolire gli eccessi in voga nei tribunali. Tipo non dare retta al mafioso che riferisce il «sentito dire» da un suo compare che nel frattempo è morto e non può confermare. Niente di che. Puro buon senso. Invece, apriti cielo. Su Valentino si è avventato il solito giro: giornali, procuratori siciliani, ecc. Ma si sono arrabbiati di brutto pure il Guardasigilli e il ministro dellInterno. Alfano ha detto che il provvedimento non sha da fare perché non è nel programma di governo. Maroni, lombardamente sobrio, ha mormorato: «Non condivido». Reazioni scontate di chi ha molta carne sul fuoco - legittimo impedimento, processo breve, riforme varie - e non vuole altre scocciature in Parlamento dai forcaioli professionali dellIdv e compagnia cantante. Sono però sicuro - moralmente sintende - che a quattrocchi pure lavvocato Alfano troverebbe da ridire sulluso dei pentiti.
Valentino è originario della Calabria, zona di coppole, ed è stato nel mirino di alcuni procuratori di Reggio per faide locali. Dallepisodio, di sei anni fa, è uscito a testa alta. Lo ricordo per dire che avrebbe avuto tutto linteresse di essere prudente, non quello di avventurarsi tra le nebbie del pentitismo. Se lo ha fatto è, presumo, per indignazione, perché come difensore è stato tirato per i capelli. Con lui e il bersagliato ddl si è infatti schierato il grosso degli avvocati. Tutti daccordo che luso dei pentiti così comè, è un cancro, e tutti delusi che, per quieto vivere, il governo faccia lo gnorri. In sostanza, lennesimo round tra legalitari e manettari.
Duole - da garantisti - ricordare che lattuale filosofia sui pentiti risale agli anni Ottanta e a Giovanni Falcone. La differenza tra allora e oggi, è che Falcone non cè più. Avendolo innescato, sapeva come usare il marchingegno senza inciampare. Infatti, mai si lasciò infinocchiare da un collaborante. Di fronte alle panzane fu inflessibile. Quando un tale Pellegriti, che puntava a sconti di pena, gli gettò loffa di rivelazioni sulla cerchia siciliana di Andreotti, lo sbugiardò. Capì al volo che bluffava e lo incriminò per calunnia.
Gli emuli non sono sempre allaltezza. Ricorderete il famoso bacio di Andreotti a Totò Riina. Era una balla del super pentito Balduccio Di Maggio. Ma la Procura di Palermo ne fece la «prova regina» e ci imbastì un equivoco processo durato una dozzina di anni. La menzogna è poi emersa grazie alla tenacia dei difensori. Il più illustre di essi, Franco Coppi, ha però rivelato che, a dispetto della legge, Di Maggio non ha subito conseguenze. I procuratori, cui aveva servito su un piatto dargento la calunnia, neppure lo hanno incriminato. Uno strabico occhiolino di riguardo.
Ma in cosa consiste questa dottrina dei pentiti che Falcone ha lasciato in mani tanto diverse dalle sue? Negli anni del maxiprocesso a 475 mafiosi - metà Ottanta - il giudice elevò i pentiti di mafia a un rango molto più alto dei soliti confidenti, delatori, soffioni, trombette cui si appoggiavano allepoca gli inquirenti. Lo fece al motto: il fine giustifica i mezzi. «La mafia - diceva Falcone - si basa su dei valori. Non sono i nostri, ma è miopia non vederli. Sono uomini, non vermiciattoli». Diceva ancora: «Lesigenza che le notizie circolanti tra gli uomini donore siano vere è un fatto essenziale per la sicurezza dellorganizzazione. Pertanto, se un uomo d'onore apprende da un altro consociato che un terzo è uomo d'onore, quella è la verità». In sostanza, Falcone attribuiva ferrea credibilità al mafioso. Quindi, anche alle rivelazioni del mafioso pentito.
Su questo antefatto fu elaborata nel novembre 1985 lordinanza di rinvio a giudizio dei 475. Il documento, considerato una pietra miliare dai mafiologi, stabilisce il valore da dare alle soffiate dei pentiti. Se un pentito chiama in correità unaltra o più persone non è semplice indizio ma prova. Testualmente: «Tutto si riduce a valutare lattendibilità della chiamata in correità, senza che siano necessari riscontri obiettivi (corsivi miei, ndr). Soccorre qui il libero convincimento del giudice». In altre parole, di fronte a un mafioso ballista delle due luna: o trovi un grande giudice che lo svergogni o non lo trovi e sei finito. E capita, accidenti se capita.
È folle. Il pentito di mafia, per legge, è più credibile di ogni altro testimone che Dio manda in terra. Prova provata, il processo Contrada. In dibattimento, sfilarono fior di generali, capi della polizia, carabinieri. Giurarono sulla sua lealtà, ne elogiarono il lavoro. Come parlare al vento. A prevalere, fu la «verità» di mafiosi, alcuni dei quali arrestati da lui.
I pentiti, si ripete, sono utili per battere le cosche. Va bene. Resta però intollerabile lenorme semplificazione del compito delle Procure che hanno in carniere un pentito, «indubitabile» per convenzione. Di fatto, sono legittimate a soprassedere su approfondimenti, esami e riscontri. Almeno, come voi e io li intendiamo.
Questo micidiale privilegio - nulla a che vedere con lo Stato di diritto - spiega perché per annichilire Tizio e Caio niente di meglio che un pentito di mafia. Se anche vivono in Brianza, si portano a Palermo e il gioco è fatto. La coppola pontifica e gli altri sono nelle peste. Nessun riferimento a Spatuzza, al Cav & co.
Guai a chi tocca il pentito «infallibile» arma delle procure
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