Guerra fredda in un oleodotto

Robi Ronza

Pochi giorni fa è stato inaugurato il gigantesco oleodotto che collega direttamente il bacino petrolifero dell'Azerbaigian con il Mediterraneo (il capolinea è il porto turco di Ceyhan nel golfo di Alessandretta).
Costruito dalla British Petroleum e costato 3,6 miliardi di dollari, l'oleodotto è lungo 1760 chilometri e può trasportare un milione di barili di greggio al giorno.
Nella società che l’ha realizzato e lo gestirà l'Eni ha una partecipazione del 5 per cento. Il nostro Paese, che importa oltre il 50 per cento del petrolio azero, alla cerimonia inaugurale era rappresentato dal sottosegretario agli Esteri Margherita Boniver.
La decisione di aprire questa nuova via del petrolio è americana, e si risale a circa tredici anni or sono, insomma a poco dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell'Unione Sovietica. Il nuovo oleodotto è una gigantesca opera di ingegneria purtroppo trascurata dal giornalismo di geografia e viaggi.
Non abbiamo perciò potuto avere adeguate immagini del suo procedere nei territori dell’Azerbaigian e della Georgia, e poi nell'immenso e spopolato altopiano anatomico, dove nel bene e nel male il suo impatto sia sull'ambiente che sull'economia e la società locali sarà certamente stato rilevantissimo.
Degli Stati Uniti - come a suo tempo della Gran Bretagna, di cui sono i diretti eredi - si deve innanzitutto ammirare la capacità di darsi obiettivi realmente strategici alla scala planetaria, quindi non di breve periodo; e poi di saperli perseguire per tutto il tempo necessario al di là dell'avvicendarsi di vari presidenti e vari governi.
Nel caso in questione l'obiettivo di fondo era quello di creare un'alternativa agli oleodotti russi con capolinea sul Mar Nero che fino a quel momento costituivano l'unico sbocco verso i mercati di consumo dei ricchi giacimenti di greggio dell'Azerbaigian e del Kazakhstan.
Da allora Washington, malgrado l'ovvia opposizione di Mosca, ha portato avanti tenacemente il progetto fino al suo compimento. Dimostrando che l'incapacità della Russia a garantire la pace delle regioni a nord del Caucaso attraversate dai suoi oleodotti, la persistente guerra in Cecenia ha dato un grosso contributo al successo dell'iniziativa americana.
La grande operazione ha tuttavia due punti deboli.
In primo luogo costituisce per Mosca una nuova sconfitta, peraltro l'ultima nel tempo di una già lunga serie. Per il momento la Russia continua a essere un gigante atterrato e inerme cui si può fare ogni cosa.
C'è però da domandarsi se sia prudente continuare a infliggerle umiliazioni che non avrà di certo dimenticato quando infine riuscirà a rialzare la testa.
In secondo luogo non si è colta l'occasione per risolvere la crisi dei rapporti tra Azerbaigian e Armenia.
Deviando non a caso dall'itinerario più breve, si è eluso il problema: il nuovo oleodotto aggira il territorio armeno percorrendo a sud del Caucaso i soli territori azero e georgiano.
Durante la cerimonia inaugurale a Baku il presidente azero Ilham Alijev non ha esitato a dire che l'oleodotto è un «fattore di sicurezza» di fronte alle «nuove sfide che ci attendono» con riguardo all'«aggressione armena e all'occupazione armena del 20 per cento del territorio azero».


È quanto basta perché ci sia di che preoccuparsi per l'immediato futuro della regione.

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