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«Guerra» Italia-Svizzera per il pronipote di Giovannino Guareschi

Giovanna, nipote dello scrittore: «Mio marito mi ha portato via il bambino accusandomi di picchiarlo». Per gli elvetici ha ragione lei, per gli italiani lui

«Guerra» Italia-Svizzera per il pronipote di Giovannino Guareschi

nostro inviato a Roncole Verdi (Parma)

La storia, quella con la S maiuscola, è sulle pareti della grande sala: i libri di Giovannino Guareschi tradotti in tutte le lingue del mondo, i suoi disegni, le sue vignette fulminanti. Una gigantografia di Fernandel, con i dentoni bene in mostra, e Gino Cervi. La cronaca è nelle occhiaie profonde di una signora sulla quarantina ripiegata su se stessa, vicino al camino: è Giovanna, la nipote del grande scrittore. Butta dei tizzoni nel focolare, ancora acceso per le ultime bizze dell’inverno, e tiene sulle ginocchia pagine, fogli, decreti del tribunale per i minori, istanze, denunce e tutto l’armamentario di parole con cui due ex innamorati possono farsi del male e litigare per un figlio conteso. Storie seriali, purtroppo, nell’Italia dei nipoti di don Camillo e Peppone. E però questo dramma si allontana, tornante dopo tornante, dalla dimensione di conflittualità quasi abitudinaria cui ci siamo assuefatti davanti alla catena di montaggio delle separazioni, dei divorzi, degli assegni di mantenimento dei figli a «targhe alterne», un week end col papà e l’altro con la mamma. E sembra voler sporcare quella storia epica che calamita nella casa di Roncole Verdi centinaia di lettori e fan di quei romanzi.
«Vedo il mio bambino col contagocce, un’ora ogni due settimane, davanti a una psicologa dei servizi sociali come fossi una sventurata, una matrigna malvagia - racconta la mamma - e questa situazione dura da nove mesi, da quando il papà me l’ha rapito con un atto di prepotenza».
Il padre, un solido agricoltore della Bassa, sposa Giovanna, insegnante di inglese, con il solo rito religioso nel 2001. L’unione mai riconosciuta ai fini civili naufraga ben presto; a settembre 2003 nasce il piccolo Andrea (il nome è di fantasia). Dettaglio non proprio secondario: il bambino viene al mondo a Lugano, dove la madre risiede da sempre, abita con Giovanna nel Canton Ticino, è in prima battuta cittadino svizzero e poi anche italiano, come il padre.
All’inizio è il papà a fare la vita grama del pendolare. Vede il figlio attraverso l’imbuto dei servizi sociali svizzeri: un giorno ogni quindici, dalle 9 alle 18, in presenza di una persona neutra e solo sul territorio della confederazione. Sembra un armistizio in zona di guerra, ma di più non si riesce a fare. Solo che non dura.
Il padre va all’attacco e cerca di demolire la figura materna a colpi di piccone. In sintesi dipinge la mamma come una donna cattiva che picchia il figlio, fino a provocare lividi sulla sua pelle. L’obiettivo è trasparente: portare via il bambino. Gli svizzeri indagano, controllano, studiano, poi gentilmente cestinano tutte le accuse. Il Procuratore pubblico Luca Maghetti interroga non uno ma due pediatri che escludono nel modo più assoluto botte e sevizie. Poi archivia con una motivazione più tranchant del taglio di un coltello: «Occorre che dagli atti emergano seri indizi di colpevolezza» che a Lugano nessuno riesce a trovare. La curatrice Augusta Tognetti va anche oltre e scrive: «Il padre mi faceva vedere fotografie con ematomi sulle gambe di Andrea, aggiungendo che aveva già fatto delle denunce. Risposi all’occasione dicendogli che secondo il mio parere erano normali per un bambino di quell’età. Gli chiesi pure se voleva vedere le gambe di mia figlia malgrado avesse 10 anni». Di più la donna traccia un profilo pesantissimo dell’uomo: «Furbo, violento (solo verbalmente spero). La sua rabbia sovrasta il bene per il bambino. Più che arrabbiato quasi patologico». Dalla fine del 2005 però la Svizzera allarga le maglie: Andrea può raggiungere il padre in Italia ogni due settimane per il week-end.
Che altro aggiungere? Niente. Il padre fa dietrofront e si presenta alla questura di Parma. Ma non punta più il dito contro la sola Giovanna; no, allarga la denuncia a tutto il clan dei Guareschi: alle zie Angelica, Antonia e Maddalena, alla nonna Gabriella, addirittura al nonno Alberto: il custode della memoria del grande Giovannino, l’instancabile promotore del Club dei ventitré, colui che per un quarto di secolo ha gestito il ristorante di Roncole aperto dallo scrittore nel 1964. È incredibile ma è così: «Sono certo che mio figlio abbia subito maltrattamenti sia ad opera della madre che presso l’abitazione dei nonni a Roncole Verdi e ritengo responsabili del medesimo reato sia i nonni che le zie». Tutte le zie, quelle italiane e quelle svizzere, madri di altri cinque bambini.
Tutti i Guareschi sarebbero attraversati da una vena di sadismo. Giovanna anzitutto: «“La mamma col bastone picchia, la mamma brutta”», è l’agghiacciante confidenza riportata dal padre. Ma non è l’unica: «Il bambino mi riferisce che la mamma lo picchia col bastone e che lo picchia anche la nonna materna», la nuora di Giovannino. Non basta: «In occasione delle visite ai nonni, vestivo Andrea con abiti puliti e di qualità e loro me lo facevano ritrovare in condizioni di totale sporcizia». Avanti, sempre con le parole passate dalla bocca del piccolo al padre e da lì al verbale: «“Il nonno e la nonna mi danno il vino, dicono ciucheton e poi ridono”»; «“La nonna mi picchia e anche la zia Angelica mi picchia in testa”». La sorella del padre aggiunge altri dettagli, pesantissimi. E così alcuni amici della famiglia paterna. A giugno 2006 il colpo di scena. Alla fine della visita canonica, il padre tiene con sé il figlio, in Italia. È un rapimento? Le autorità svizzere restano sbalordite, quelle italiane invece approvano. Anzi il tribunale per i minori di Bologna schiera la sua autorevolezza al servizio dell’uomo, affidando il bambino «in via provvisoria e urgente alla Ausl di Parma e collocandolo presso il padre».
Il 19 luglio la Commissione tutoria regionale di Agno (Lugano) risponde per le rime al Tribunale per i minori: «L’inchiesta esperita sia dall’autorità civile sia da quella penale ha concluso con la certezza dell’infondatezza dell’accusa e dell’inadeguatezza della madre nella cura del figlio. Le ecchimosi, dopo esame medico-pediatrico, si sono rivelate essere normali ematomi dovuti all’apprendimento della deambulazione e al fatto che il domicilio della madre è confinante con boschi e roveti». Testuale.
Dall’Italia i servizi sociali rispondono con parole di fuoco: «Le caratteristiche personologiche, le modalità relazionali, delineano una grande difficoltà e carenzialità della signora nel ruolo genitoriale, difficoltà che può trovare radici anche nella sua storia familiare». E così il dramma viene battezzato nell’acqua intorbidata della saga dei Guareschi. Poi gli specialisti se la prendono con Giovanna perché non ha restituito al figlioletto il Gigio, un cagnolino di peluche: «Il Gigio è un pezzo della loro relazione e negarlo è come negare se stessa».

Per Giovanna, invece, il Gigio «è il simbolo della resistenza di madre al sopruso di chi le ha tolto il figlio».
Due verità per un bambino: una è di troppo. Per ora il piccolo resta col padre. La madre invece rimane sola, sotto la grande foto del nonno Giovannino: la faccia fiera, tagliata in due dai quei baffoni così antichi.

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