Nei giorni scorsi l’hanno scritto a chiare lettere sul New York Times due politologi americani, Nikolas Gvosdev e Andrew Stigler, rilevando il paradosso di un’epoca (la nostra) durante la quale la guerra è scomparsa di nome ma non di fatto, con la conseguenza che si continua a combattere, a uccidere e a bombardare, ma si preferisce parlare di «polizia internazionale » o «interventi umanitari ». Non è solo un problema di terminologia: alla base c’è la negazione della guerra come possibilità. Il dramma è che da tutto questo discende il venir meno di ogni limite e garanzia. Anche il fatto che oggi le ostilità non siano formalmente dichiarate attesta un imbarbarimento giuridico su cui è indispensabile riflettere.
Di questo si è fatto carico Emanuele Castrucci con un volume di notevole densità intitolato Nomos e guerra. Glosse al Nomos della terra di Carl Schmitt (La scuola di Pitagora, pagg. 180, euro 14). L’autore si confronta da anni con il grande giurista tedesco e, per Adelphi, ha curato in italiano proprio quel lavoro del 1950 che oggi è al cuore di queste pagine, volte a riattualizzare una ricerca che nasceva all’indomani della catastrofe bellica con l’obiettivo di interrogarsi su quanto permaneva dello jus gentium nell’epoca delle democrazie di massa e dei totalitarismi. Se spesso le riflessioni più acute sulla guerra si devono proprio agli sconfitti, che nell’analisi trovano una terapia per fare i conti con il fallimento, una conferma l’aveva data lo stesso Schmitt, che al termine di una fase che l’aveva visto subire processi di varia natura per il suo coinvolgimento con il Terzo Reich, con Il Nomos della terra ha esaminato le ragioni e le difficoltà dell’età contemporanea.
Ai suoi occhi, se la situazione è drammatica ciò lo si deve in primo luogo al pacifismo della cultura liberaldemocratica e alla sua spinta (kantiana, e poi wilsoniana) a realizzare un unico ordine politico. Quelle che Schmitt sviluppa sono variazioni di intonazione internazionalistica dell’aforisma di Pascal, al cui spirito giansenista già era apparso ben chiaro che «l’uomo non è angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia ».
Il venir meno di ogni possibilità di regolare i conflitti e l’imporsi di guerre totali, che si concludono solo con l’annientamento del nemico, sono la diretta conseguenza di uno spirito da «anime belle» che ha immaginato un’umanità pacificata. Purtroppo, com’è caratteristico degli autori realisti, il fatto incontestabile secondo cui, storicamente, il potere prescinde in larga misura dalla giustizia tende a slittare dal piano descrittivo a quello normativo. Insomma: non solo l’ordine vigente è ingiusto, ma nemmeno ha senso pretendere che non lo sia. Basti considerare che mentre in Locke solo a seguito del lavoro si ha un’occupazione dello spazio in senso autentico, in Schmitt la trasformazione della terra fa seguito alla conquista (collettiva, da parte del popolo occupante) e alla «divisione del bottino». Il nomos deriva dalla semplice presa di possesso di un territorio e solo da essa; e se in Marx il dominio dell’uomo sull’uomo si spiega a partire dal controllo dei mezzi di produzione e del mercato del lavoro, in Schmitt- come in qualche post-marxista contemporaneo - è l’egemonia proprietaria sulla superficie terrestre che genera il diritto quale sovrastruttura. In questo orizzonte, si comprende lo «sfondamento a sinistra» del pensiero schmittiano e, al tempo stesso, l’assenza in tale autore di ogni esplicito riferimento a criteri di giustizia.
Sebbene egli stesso non manchi, ma solo per via indiretta, di esprimere inquietudine e angoscia di fronte a un ordine che alla fine gli appare - difficile reperire altri termini- sostanzialmente ingiusto. Castrucci rilegge Schmitt con spirito simpatetico, ma utilizzando l’antropologia giuridica egli ne sviluppa talune intuizioni, specificando come l’illusione di abolire la guerra discenda dall’incomprensione del ruolo che il capro espiatorio gioca in ogni società. Il tema fu già al centro degli studi di René Girard, persuaso però che il sacrificio del Figlio di Dio - la morte di Cristo sulla croce - potesse indicare un percorso per superare questa esigenza di periodici olocausti. Castrucci non la pensa così e anzi ritiene che il pacifismo pretenda proprio di «eliminare il negativo semplicemente ignorandolo: il suo programma di abolire la guerra corrisponde all’illusione di abolire la ragionevole necessità del sacrificio ».
Esiste, pur rifuggendo ogni irenismo, una possibile composizione di tali esigenze? Si può accettare l’uomo quale «legno storto» e al tempo stesso, senza fughe in avanti, ritenere che ordini istituzionali più ragionevoli possano limitare il ricorso al sacrificio di innocenti? In fondo, una delle ragioni alla base del nostro affannarci sul diritto e sulla giustizia deriva
proprio da qui. E anche la riflessione di Castrucci sulle incongruenze del diritto internazionale contemporaneo punta proprio, riscoprendo una vecchia saggezza, a limitare la guerra. E a limitarla grazie al diritto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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