Donald sembra "frustrato". Si sfila dopo il nuovo rinvio per evitare un fallimento

Per Vance: "Putin non vuole la pace". Nessun impegno, palla al Vaticano

Donald sembra "frustrato". Si sfila dopo il nuovo rinvio per evitare un fallimento
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Donald Trump si trova a inseguire Vladimir Putin e il ruolo non gli piace. Il presidente Usa non può far trapelare del tutto la sua «frustrazione» - questo il termine che circola nella West Wing della Casa Bianca - pena la definitiva ammissione che la promessa di far terminare la guerra in Ucraina «in 24 ore» altro non era che propaganda elettorale. Il tycoon in questi mesi ha sparigliato la tavola ereditata da Joe Biden, mettendo sotto pressione Volodymyr Zelensky, minacciando di abbandonare al proprio destino l'Ucraina e gli alleati europei della Nato, scommettendo tutto sulla sua capacità di persuasione nei confronti del leader russo.

Dopo decine di dichiarazioni, post e missioni dell'inviato Steve Witkoff e dopo l'inconcludente faccia a faccia in Turchia tra ucraini e russi è il vice di Trump, JD Vance, a esprimere il sentimento dell'amministrazione Usa e a chiedersi pubblicamente, sul volo di ritorno da Roma, «se Putin voglia veramente la pace». Un passo indietro emblematico rispetto alle certezze del presidente: «Putin vuole la pace», ha più volte ripetuto. La telefonata «di due ore» tra Trump e Putin non scioglie il dubbio e rimanda la soluzione del conflitto a un negoziato che inizierà «immediatamente», secondo il resoconto del tycoon, e dal quale gli Usa sembrano però sfilarsi: le condizioni per avviare i colloqui «saranno decise tra le due parti, perché conoscono dettagli di un negoziato di cui nessun altro sarebbe a conoscenza».

Se non è una capitolazione al ruolo di mediazione assunto in questi mesi, poco ci manca. Trump preferisce ormai rimanere alla finestra e si accontenta dell'annuncio di una pace che (forse) verrà e rimanda la palla ai due contendenti, spingendoli sul «campo neutro» del Vaticano: «È interessato a ospitare i negoziati». Un eventuale fallimento, insomma, non ricada su Washington, a macchiare l'immagine dell'autore de L'arte dell'accordo.

Per convincere Putin a fare sul serio, in mano a Trump resta l'arma delle «sanzioni secondarie»: i dazi «fino al 500%» che gli Stati Uniti potrebbero imporre a chiunque abbia ancora rapporti commerciali con la Russia. Ma è un'arma controproducente per almeno due ragioni. La prima, perché andrebbe a colpire soprattutto la Cina, con la quale la Casa Bianca sta cercando faticosamente di mettere fine alla guerra commerciale che rischia di fare impazzire l'inflazione in America e ingolfare l'economia globale. La seconda ragione sarebbe l'allontanamento definitivo di uno degli obiettivi della «fretta» di Trump nel mettere fine alla guerra: la ripresa dei rapporti commerciali con Mosca e, soprattutto, il ritorno del petrolio russo sui mercati mondiali, con il conseguente abbassamento dei costi dell'energia (e dei prezzi alla pompa negli Usa), uno dei pilastri della politica economica trumpiana.

E il tycoon non si fa scrupolo di dirlo, attribuendo a Putin un desiderio che al momento è soprattutto il suo: «La Russia vuole avviare commerci su larga scala con gli

Stati Uniti una volta terminato questo catastrofico bagno di sangue». Per ora, a conferma che l'annuncio del tycoon va ancora riempito di contenuti, nessuna ipotesi di incontro con Putin, il vero arbitro di questa partita.

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