Dalla Florida, il messaggio di Donald Trump è arrivato forte e chiaro: gli Stati Uniti potrebbero scegliere l'opzione degli attacchi via terra in Venezuela per colpire le roccaforti del narcotraffico.
Il Venezuela, terra di corridoi del narcotraffico
Il punto è che il narcotraffico venezuelano raramente ha bisogno di fortini: gli bastano corridoi sicuri, “finestre” temporanee e connivenze. Per questo molte analisi parlano di “reti” e “facilitatori” più che di un unico cartello monolitico. Le mappe ONU sulle rotte e i report indipendenti convergono su un dato: l’asse frontiera occidentale-uscite caraibiche resta uno dei meccanismi portanti.
In Venezuela, parlare di “roccaforti narcos” come se fossero città-fortezza controllate da un unico cartello è fuorviante. Qui il traffico di droga somiglia più a una geografia di corridoi: tratti di frontiera dove passano uomini e carichi, coste da cui si salpa, fiumi che tagliano la giungla, e snodi urbani dove si riciclano soldi e si comprano protezioni. È un sistema a rete, resiliente perché frammentato.
Le aree calde nel mirino di Washington
Nel Zulia, lo Stato più occidentale e porta d’accesso verso la Colombia, la logistica del narcotraffico si intreccia con contrabbando e controllo armato. È una terra di passaggio: la merce entra dal lato colombiano e cerca un’uscita rapida verso il Caribe. Le analisi disponibili indicano Zulia come uno dei principali punti di transito e di partenza, proprio per la combinazione di confine poroso e accesso marittimo.
Più a sud, negli Stati di Apure e Amazonas, il terreno cambia: meno città, più fiumi, piste e sentieri. Qui la parola “roccaforte” significa soprattutto zona di influenza: aree dove gruppi armati e reti locali possono muoversi con relativa facilità, sfruttando la difficoltà di controllo territoriale. In queste regioni organizzazioni colombiane (come ELN e dissidenze FARC) sfruttano il confine come retrovia e corridoio.
Se l’ovest è la porta d’ingresso, il Caribe è spesso la via d’uscita. La fascia costiera — con Falcón ricorrente nelle analisi — è descritta come un’area dove i traffici possono essere “regolati” o facilitati da equilibri locali, più che dominati apertamente. È un traffico che punta alla velocità e alla dispersione: piccoli lotti, rotte variabili, appoggi temporanei.
Verso est, Sucre e il Delta dell’Orinoco (Delta Amacuro) compaiono spesso nel quadro dei corridoi di uscita: costa frastagliata, comunità disperse, e la possibilità di “saltare” verso rotte internazionali passando per il Caribe. Anche qui, più che roccaforti statiche, è una geografia di opportunità.
Nel Bolívar e nell’area dell’Arco Minerario dell’Orinoco, l’economia criminale è un mosaico: oro, estorsioni, tratta, armi e — in alcuni casi — droga. Le reti non si limitano a “trasportare”: controllano lavoro, passaggi, e protezione, approfittando della vulnerabilità sociale e della distanza dai centri di potere.
Infine c’è il livello urbano: Caracas e altre grandi città difficilmente sono “hub” di transito fisico, ma restano cruciali per riciclaggio, documenti, corruzione e catene di comando. È anche qui che si nota la sovrapposizione con la criminalità organizzata venezuelana e le sue evoluzioni transnazionali: l’attenzione internazionale sul Tren de Aragua — nato come gang carceraria e diventato rete regionale — racconta come il crimine venezuelano oggi si muova oltreconfine e su più mercati illegali.
Dove sono le forze Usa nei Caraibi
Resta però il limite operativo di un attacco di terra, che necessita-se non si vuole optare solo per l'opzione aerea-di mezzi da sbarco. La presenza navale statunitense nel Mar dei Caraibi e davanti alle coste venezuelane include un gruppo significativo di navi della US Navy che operano sotto il comando del Fourth Fleet / US Naval Forces Southern Command: la portaerei USS Gerald R. Ford con il suo carrier strike group; numerosi cacciatorpediniere lanciamissili come USS Gravely, USS Jason Dunham, USS Stockdale e USS Sampson (ma soprattutto vascelli anfibi del tipo USS Iwo Jima, USS San Antonio e USS Fort Lauderdale che trasportano Marines ed elicotteri; in più, un sottomarino d’attacco nucleare e navi per operazioni speciali come l’MV Ocean Trader che supportano operazioni di monitoraggio e interdizione marittima.
Gli Stati Uniti hanno inoltre schierato i caccia F-35 nelle loro basi nei Caraibi e hanno riaperto la base navale di Roosevelt Roads a Porto Rico, chiusa da oltre 20 anni. Negli ultimi mesi ha anche fatto volare bombardieri e aerei spia sulla regione. Secondo i dati di tracciamento dei voli di FlightRadar24, a ottobre tre bombardieri B-52 sono decollati da una base aerea in Louisiana e hanno sorvolato la costa del Venezuela. E i dati di tracciamento del mese scorso mostrano che diversi aerei da ricognizione P-8 Poseidon hanno sorvolato i Caraibi verso sud partendo da una base navale statunitense in Florida. Gli esperti affermano che questi voli suggeriscono che gli Stati Uniti stanno cercando di raccogliere informazioni militari dalla regione.
Cosa dice la legge
Per impegnare truppe in un conflitto prolungato o in attacchi di terra contro un altro Stato, il presidente dovrebbe ottenere dal Congresso una Authorization for Use of Military Force (AUMF) o una dichiarazione di guerra specifica, dato che la legge statunitense (come la War Powers Resolution del 1973) permette al presidente di impegnare forze armate all’estero solo per un periodo limitato (tipicamente 60 giorni) e richiede un’informativa al Congresso su qualsiasi operazione entro 48 ore dalla sua avvio.
Dal punto di vista del diritto internazionale, la Carta delle Nazioni Unite proibisce l’uso della forza armata contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di altri Stati, salvo due eccezioni, ossia l'autodifesa in risposta a un attacco armato reale o imminente ai sensi
dell’articolo 51 della Carta ONU, o l' autorizzazione specifica del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La prima opzione potrebbe essere proprio quella che Washington potrebbe impugnare in caso di attacco preventivo.