L’anomalo "negoziatore" Donald e questa guerra che divide i suoi

Il presidente Usa oscilla tra l’idea di una mediazione e le minacce di schierarsi, tra le perplessità Maga

L’anomalo "negoziatore" Donald e questa guerra che divide i suoi
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Mediare o combattere al fianco d'Israele? Ormai non sembra saperlo neanche Donald Trump. Anche perché le sue dichiarazioni delle ultime 48 ore sono un confuso susseguirsi di rassicurazioni e minacce. Il tutto condito dall'idea, perlomeno singolare, di delegare a Vladimir Putin un negoziato per il cessate il fuoco tra Israele e Iran. A questo scenario, già sconcertante, s'aggiungono i tentativi di Bibi Netanyahu di tirarlo per la giacca convincendolo a partecipare alla guerra contro Teheran. Secondo due funzionari israeliani citati dall'agenzia Axios, sempre ben informata, Israele avrebbe già chiesto all'amministrazione Usa di partecipare alle operazioni. La richiesta arrivata tra sabato e domenica sarebbe stata respinta. Almeno per ora.

L'incalzare delle profferte israeliane preoccupa però quella parte del movimento Maga che preme per un progressivo disimpegno dal Medio Oriente. «Nessuna questione attualmente divide la destra quanto la politica estera. Sono molto preoccupato che questo possa causare un enorme scisma e potenzialmente compromettere il nostro slancio e il successo della nostra presidenza» scrive su X l'attivista Maga Charlie Kirk. Dietro queste preoccupazioni si cela il timore che i movimenti evangelici americani, vicini ai partiti messianici israeliani e custodi di molti voti trumpiani, spingano Trump tra le braccia di Bibi. E ad aumentare i timori s'aggiungono i toni bellicosi di un The Donald pronto a minacciare «rappresaglie senza precedenti».

Le tirate di giacca del suo miglior alleato nascondono invece le insicurezze israeliane. Netanyahu sa che l'usura della guerra e la resilienza del nemico iraniano rischiano di fiaccare anche la sofisticata macchina da guerra di Tsahal. Spostare quotidianamente almeno cinquanta aerei per colpire obbiettivi distanti tra i 1.500 e i 2mila chilometri nascosti nel cuore di un Paese immenso comporta rischi e costi enormi. E difficoltà insormontabili. Non a caso Israele non ha, fin qui, neanche tentato di colpire il sito di Fordow considerato il più inaccessibile santuario del nucleare iraniano. Scavato nel cuore di una montagna e coperto da oltre 80 metri di roccia e cemento armato può venir distrutto solo dalle bombe anti bunker da 15 tonnellate in dotazione ai B2, i bombardieri strategici americani. Ma l'aiuto americano risulterebbe ancor più indispensabile qualora si scoprisse che il vero obbiettivo della guerra non è la distruzione delle infrastrutture nucleari, ma la caduta del regime. In quel caso solo Washington avrebbe la capacità di garantire la continuità delle operazioni aeree su un territorio grande quasi cinque volte l'Italia.

Ma il rischio più grosso per Trump è che uno degli alleati dell'Iran, o alcune delle milizie sciite sparse tra Irak, Libano e Yemen colpiscano una base americana. A quel punto il coinvolgimento statunitense sarebbe praticamente obbligato. Ovviamente i primi a voler evitare uno sviluppo del genere sono Ali Khamenei e i vertici della Repubblica Islamica ben consapevoli che un intervento americano segnerebbe la loro fine. Ma il primo a evitare di ritrovarsi prigioniero di un Iran precipitato dalla dittatura al caos dovrebbe essere Trump.

Anche perché, come insegnano le esperienze dei suoi predecessori in Irak e Afghanistan, far cadere dittatori o regimi sanguinari non è molto difficile. Mentre, spesso, è quasi impossibile trovare qualcuno in grado di sostituirli.

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