
La sensazione è quella di uno spreco di parole, di telefonate, di trattative appese alla volontà di Putin che fanno il giro dell'oca: partono da Istanbul, poi per un giorno si ambientano, ma solo nella mente, in Vaticano, quindi si spostano con la fantasia sul lago di Ginevra e infine tornano a Istanbul. Chi decide è sempre lo Zar: parla poco spolverando tanti «no» e «ni» che gli servono a prendere tempo ma nel contempo non lesina «fatti» (droni, missili e conseguenti massacri) che vanno in senso contrario al negoziato. E più trascorrono le settimane e più ti accorgi che lo Zar non dà molto peso alle parole degli occidentali. Tant'è che ieri quando Donald Trump di fronte al terzo giorno di bombardamenti consecutivi su Kiev ventilava nuovamente la minaccia di nuove sanzioni alla Russia e dava del «completamente pazzo» al suo omologo di Mosca, il Cremlino si è limitato a minimizzare con una punta d'ironia e una buona dose di sarcasmo: «C'è un po' di sovraccarico emotivo».
La verità è che «le parole» orfane dei «fatti» si consumano. Se come nelle favole gridi cento volte «al lupo, al lupo» e il lupo non appare, nessuno ti crede più. E francamente Donald Trump ha consumato tante, troppe parole. Per essere ancora credibile sia con Putin, sia con Zelensky, sia con gli stessi europei. Un discorso che in termini meno drastici si può fare anche con gli europei. Per carità sulle sanzioni decise a Bruxelles sono stati di parola, ma lo stesso non si può dire però per le promesse fatte a Kiev dalle diverse capitali: abbiamo aspettato per mesi l'arrivo nel teatro di guerra ucraino dei tanto decantati missili tedeschi, i famigerati Taurus, ma sono bastate un paio minacce colorite del più ciarliero esponente dell'organigramma moscovita, Medvedev, per far rientrare quei formidabili armamenti negli arsenali di Berlino ad ammuffire.
Il risultato è frustrante: se lanci ultimatum che puntualmente disattendi e tracci linee rosse che il tuo avversario costantemente oltrepassa senza pagar dazio è naturale che alla fine la tua parola conti poco o nulla. Si inflaziona. E alla fine le mobilitazioni sacrosante si trasformano addirittura in un boomerang a livello globale. Il messaggio che Putin lancia al mondo è semplice: si può sfidare l'Occidente, prendere in giro i suoi governanti, intanto non si rischia niente.
Il punto è che con chi capisce solo la forza, devi parlare pure con la forza. È l'unico linguaggio che conosce fino a quando la forza lo indurrà a sedersi al tavolo del negoziato. Lo insegna la Storia. Per citare una frase celeberrima del 26esimo presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt: «Speak softly and carry a big stick», parla dolcemente e porta con te un grosso bastone. Molti analisti dicono che per alcuni aspetti in politica estera Trump si sia ispirato «Teddy» (era il soprannome di Roosevelt): basta pensare ai «dazi» nel commercio, o, ancora, alle pretese sulla Groelandia. Ma almeno finora, con l'avversario più temibile, cioè Putin, The Donald ha parlato solo «dolcemente». E ancora più «dolce» è stato con Netanyahu di fronte alla tragedia di Gaza. Minacce gettate là alla rinfusa, ultimatum, condizioni ma senza seguito. Così Trump perde di autorevolezza.
Un atteggiamento, un approccio che forse segna il tramonto dell'Occidente ma anche la fine del secolo americano. Sarebbe un paradosso inquietante per chi si è presentato sulla scena mondiale gridando: «Make America Great Again».