Massacri, bambini soldato e rifugiati verso l'Italia: la catastrofe del Sudan

Il Paese vive la peggiore crisi umanitaria globale: fame, violenze etniche, assedi. Il collasso spinge migliaia di persone verso Ciad, Libia ed Europa. Save the Childern: "Il mondo ci aiuti per un cessate il fuoco"

Massacri, bambini soldato e rifugiati verso l'Italia: la catastrofe del Sudan

Da quasi tre anni il Sudan è dilaniato da una guerra civile violentissima. Da una parte l'esercito regolare guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan e dall'altro il gruppo paramilitare del generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, che porta il nome di Rapid Support Forces (RSF), che in passato si facevano chiamare Janjaweed, "diavoli a cavallo". Lo scontro tra fazioni rivela una guerra brutale, fatta di violenze etniche, stupri e bambini soldato. Ne ha parlato a Il Giornale Francesco Lanino, Vice Direttore di Save the Children in Sudan

Dott. Lanino qual è la situazione attuale?

I Sudan la situazione è catastrofica, nel senso ci troviamo nella crisi umanitaria più grande a livello globale. Molte volte l'attenzione mediatica, soprattutto in Europa, è molto concentrata su Ucraina e Gaza. Qui però c'è una crisi umanitaria ormai da 3 anni, una guerra che ha scatenato più di 150.000 morti secondo le Nazioni Unite e dove ancora si trovano circa 11 milioni di persone sfollate o rifugiate in paesi vicini.

È una guerra civile che adesso si è spostata lungo la parte centro occidentale del paese, per cui nella parte del Darfour che storicamente ha già avuto situazioni di conflitto del passato, ma anche del Kordofan, che è più a sud verso anche il confine con il Sud Sudan.

sudan Abdel-Fattah Burhan
Abdel-Fattah Burhan

Ci fa un quadro umanitario del conflitto?

In questo momento, secondo gli ultimi dati anche delle Nazioni Unite, più della metà della popolazione si trova in stato di emergenza umanitaria, vuol dire che ha bisogno di qualsiasi tipo di assistenza: alimentare, medica, educativa, di protezione. Metà di questi sono bambini. La loro situazione è molto drammatica, soprattutto per noi come Save the Children, non solo la metà di queste persone sfollate sono minori, sono bambini, ma anche il sistema scolastico è totalmente collassato e solamente un bambino su di due va a scuola. Le scuole sono chiuse, non ci sono insegnanti disponibili e non ci sono neanche strutture mediche, per garantire un minimo di diritto alla salute a questi minori che hanno già vissuto tante atrocità.

Dove opera Save the Children in Sudan?

Stiamo operando in 13 degli Stati, in Darfour a El Fasher e Tawila, e anche nella parte del West Darkfour, vicino al confine con il Ciad. Tutte aree dove c'è una grande concentrazione di scontri, come nella caduta di El Fasher, con gli ultimi massacri condotti da parte dell RSF. Abbiamo anche una presenza nel Kordofan nella città di El-Obeid e nella città di Kadugli che probabilmente ora con la caduta di El Fasher, diventerà un nuova zona di scontri.

sudan Mohammed Hamdan Dagalo
Mohammed Hamdan Dagalo

Qual è la carenza più grave che vedete?

In tutte queste aree, secondo le Nazioni Unite, c'è una situazione di carestia estrema. Ci sono centinaia di migliaia di persone che stanno letteralmente morendo di fame. La situazione ovviamente nel El Fasher è quella più grave. È una città che è stata sotto assedio per 18 mesi, vuol dire che nessuno ha potuto portare un 1 kg di farina, un pezzo di pane o qualsiasi altra cosa alle persone che vivevano lì. Stiamo parlando di quasi 300.000 persone. Ora, con la caduta nelle mani dell’RSF, abbiamo un movimento di persone che stanno cercando salvezza in altre parti del Paese.

Come avete vissuto l’assedio di El Fasher da parte delle RSF?

Avevamo un nostro team a El Fasher quando l’RSF ha occupato la città e ovviamente sono stati momenti molto intensi e difficili per noi. Non ci sono comunicazioni attive, non c'è una rete telefonica, non c'è internet per cui non riuscivamo veramente a capire un po' quello che stesse succedendo dentro la città e poi il destino dei nostri operatori umanitari.

Fortunatamente sono riusciti a raggiungere Tawila, dopo due giorni a piedi, e ci hanno raccontato quello che è successo. Uccisioni casa per casa, il massacro indiscriminato di persone, uomini, donne o bambini, uccisi in base alla loro appartenenza etnica, una brutalità inaudita.

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I massacri di El Fasher visti dal satellite

Cosa succede ora che l’assedio è finito?

Abbiamo informazioni di persone che sono scappate per 60-70 km in zone piene di milizie armate che derubano i profughi, violentano le donne, uccidono quante più persone possibile. I pochi che sono riusciti a fuggire ci hanno raccontato di non aver mangiato per giorni e che molti sono morti di stenti.

In questo momento più o meno 90.000 persone sono riuscite a fuggire, ma probabilmente tra le 200 e 250.000 si trovano ancora là e non sappiamo cosa sta succedendo.

Cosa state cercando di fare?

Cerchiamo di capire se è possibile aprire dei corridoi umanitari. Purtroppo tutti i tentativi di dialogo sono finiti senza alcun risultato. Come organizzazione abbiamo accolto tantissimi bambini non accompagnati. Assistiamo a uno sfollamento continuo di popolazione da una città all'altra, con il paradosso che cercano rifugio in centri controllati dalle RSF o altri gruppi affiliati, cioè le stesse persone che stanno commettendo queste atrocità su base etnica.

Che effetti ha questa precarietà perenne?

C'è una grande preoccupazione e paura per cui tante persone si stanno muovendo verso il Ciad, altre vanno verso la parte controllata dalla SAF a Khartoum, però stiamo vedendo che c'è un movimento che inizia a crescere verso la Libia e dalla Libia poi verso l'Italia. Se uno osserva i dati degli ultimi sbarchi può vedere che c'è stato un incremento dei sudanesi.

Si rischia un effetto domino verso l’Europa?

Non riuscire a creare uno spazio di sicurezza un po' stabile dove noi operatori umanitari possiamo veramente portare aiuto qui, nel Darfour o in altre parti del Paese, per tante persone potrebbe significare dover trovare un altro posto sicuro, magari in Europa.

In un conflitto come quello in Sudan e Darfour quando conta l’odio etnico?

C'è un uso politico delle differenze etniche, c'è una propaganda che alimenta un odio verso il diverso, verso chi è non della stessa mia tribù, famiglia o zona di origine che viene fomentato dai politici locali e da questi gruppi armati. Un fenomeno che fa breccia tra tutta una generazione di adolescenti, perché la maggior parte di questi guerriglieri sono bambini, sono adolescenti che non hanno avuto mai accesso a un sistema scolastico.

Anche il Sudan è vittima della piaga dei bambini soldato?

Sì, c'è un enorme presenza di bambini in soldato. È difficilissimo da immaginare. Come può un bambino così piccolo essere stato formato per una cosa così, all’incitamento all'odio e alle uccisioni. Noi abbiamo dei programmi dedicati per cercare di aiutare questi bambini e poi cercare un reinserimento nel tessuto sociale. Il problema è che non vengono mai lasciati andare, cioè vengono usati finché muoiono. Questa è la situazione drammatica.

Come è possibile spezzare questa spirale?

Non è una classe che fa un servizio militare. Queste sono persone che continuano a utilizzare bambini perché sono facili da usare, obbediscono agli ordini e non riescono a capire quello che stanno facendo. Il problema è cosa sarà un giorno di tutti questi bambini o persone nel futuro.

Esistono programmi di recupero?

Sono già complessi per gli adulti. Io ho lavorato a dei programmi per ex bambini soldato che venivano dal nord dell'Uganda durante Lord's Resistance Army di Joseph Kony, e lì è stato veramente complicatissimo, nonostante la sia guerra finita, perché c’è voglia di vendetta da parte di familiari e vittime che hanno riconosciuto questi bambini. Serve molta pazienza per far ritornare questi bambini non solo a una salute mentale stabile, ma anche a far parte di un tessuto comunitario che hanno totalmente perso e di cui nessuno vuole che tornino a far parte.

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Adolescenti e bambini soldato in Sudan

C’è un peso di attori internazionali?

In Darfour arrivano armi e dal Darfour esce molto oro. Tutto questo viene alimentato da interessi economici di altri Paesi. Ecco perché noi organizzazioni internazionali chiediamo aòòa cominità internazionale di impegnarsi per risolvere il conflitto. Non è sufficiente che la comunità internazionale di indigni per quanto sta accadendo ma, per mantenere in vita il Sudan, è necessario che prenda delle posizioni politiche forti riguardo i crimini contro l'umanità commessi da specifiche persone, individui, le cui responsabilità sono note con prove evidenti.

Avete avuto risposte dai Paesi più coinvolti?

Non c'è una volontà della comunità internazionale di trovare una soluzione politica per il Sudan. Forse perché è percepito come l'ennesimo conflitto in Africa e l'Africa è lontana, complicata, tribale o forse perché l'attenzione mediatica è assorbita sull’Ucraina e Gaza.

All’orizzonte c’è almeno una tregua, o un cessate il fuoco temporaneo?

Sembrava esserci l'intenzione di una tregua da una parte, che è stata poi contestata dall'altra. Nonostante poi ci sia stata questa intenzione di tregua, gli attacchi di droni continuano. I massacri continuano, la gente continua a morire di fame. Non abbiamo accesso a El Fasher o in tante zone del Paese in cui abbiamo le medicine, abbiamo il cibo, anche le Nazioni Unite ce l’hanno pronto, ma non possiamo distribuirlo.

Cosa state facendo come Save the Children?

La nostra priorità, come il nostro mandato, riguarda i diritti dei bambini e dei minori. Nel paese abbiamo quasi 100 punti sanitari nelle zone di conflitto che stanno dando cure mediche gratuite e medicine per migliaia e migliaia di persone ogni settimana attraverso i nostri medici volontari e nel paese.

Stiamo facendo una campagna di vaccinazione per i bambini sotto 5 anni di età. In questo momento centinaia di scuole nel Paese sono state riaperte anche grazie a Save the Children e supportiamo circa 1 milione di bambini che sono riusciti a tornare a scuola.

Abbiamo attività di protezione per tutti i bambini che hanno vissuto degli abusi fisici o che hanno avuto dei traumi legati alla perdita di fratelli, sorelle, genitori, parenti e per cui diamo un sostegno psicologico.

Fornite anche altri tipi di aiuto?

Ci occupiamo di igiene e prevenzione delle epidemie in corso, come quella di colera che sta già facendo migliaia di morti. Ci occupiamo della distribuzione di shelter kits, cioè materiali perché le persone possono ricostruirsi una tenda o possono avere un materasso o utensili da cucina.

Distribuiamo cibo, acqua potabile, soprattutto nei campi sfollati e ci occupiamo poi anche di fornire supporto economico, attracero dei programmi in cui a delle famiglie più vulnerabili diamo una sorta di assistenza in denaro.

Quali sono le vostre necessità?

Abbiamo bisogno di una costante attenzione mediatica e internazionale sul conflitto in Sudan. Bisogna parlare del Sudan, bisogna che ci sia una mobilitazione mediatica, perché questo conflitto va risolto a livello politico.

Poi c'è un disperato bisogno di medicine, che devono continuare ad arrivare. C'è bisogno di fondi flessibili che possono ovviamente cambiare a seconda delle emergenze. Se noi immaginiamo di tornare El Fasher, sfamare 250.

000 per almeno 6 mesi è un impegno enorme e ovviamente questo richiede una presenza, ma anche dei fondi che ci consentano un intervento di lungo periodo, per cercare di tenere in vita il Sudan in questi in questi giorni mesi bui della sua storia.

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