
L'altro giorno mentre Trump incontrava Zelensky e i leader europei alla Casa Bianca, nel disinteresse generale la vampira del Cremlino, la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, poneva la questione che potrebbe far inceppare il negoziato di pace: «Per la Russia è inaccettabile la presenza sul territorio ucraino di un contingente militare di paesi Nato». Tradotto il Cremlino non accetterebbe la presenza di truppe della «forza di rassicurazione» dei cosiddetti paesi volenterosi (che fanno parte nella stragrande maggioranza dell'Alleanza Atlantica) in Ucraina.
La questione non è di poco conto. È dirimente. È il cuore del tema della sicurezza posto da Kiev per la pace. È il corollario di quell'equazione-concessione dei territori a Mosca in cambio delle garanzie per Kiev - tirata fuori dal sottoscritto il 7 ottobre del 2022 e di cui ora parlano tutti. La ragione è semplice: per creare meccanismi sul modello dell'art. 5 della Nato, l'Ucraina deve poter contare su paesi che siano disposti a intervenire in suo favore di fronte a un'aggressione futura da parte della Russia. Si configura non solo un'alleanza militare, ma politica come quella che è alla base del Patto Atlantico e che lega tutti i paesi occidentali. Questo concetto, però, non è nella mente di Putin che per ora con Trump ha parlato di garanzie per la sicurezza dell'Ucraina in termini vaghi. E anche l'inquilino della Casa Bianca per non indispettire l'interlocutore è stato poco stringente sull'argomento. Tutt'altro. Ha rassicurato gli europei che ci sarà la collaborazione Usa, ha parlato di copertura aerea, ma non è andato oltre.
In questo modo, però, il tabù rimane e il negoziato continua ad essere evanescente. Anche perché in passato la mente di Putin ha partorito ipotesi di garanzia per Kiev che erano una via di mezzo tra la pagliacciata e il ridicolo: nel 2022 nei colloqui di Istanbul la delegazione del Cremlino aveva immaginato in caso di aggressione che qualsiasi intervento in favore dell'Ucraina dovesse essere subordinato ad una decisione unanime delle nazioni «garanti», tra le quali erano presenti la Russia e la Bielorussia. Insomma, se l'armata rossa avesse di nuovo attaccato Kiev gli altri paesi avrebbero potuto prestare aiuto solo con l'ok di Mosca: una presa in giro degna di Giuseppe Stalin. Ecco perché dire che Putin è d'accordo sul fatto che l'Ucraina debba avere garanzie non significa niente. Tanto più che la tipologia dei meccanismi per la sicurezza configurerà pure lo «status» della nazione ucraina in futuro. In sintesi: Kiev sarà libera di allearsi con chi vuole o no? La sua sovranità sarà piena o sarà limitata come la Berlino del dopoguerra? E, soprattutto, la rinuncia al 20% del suo territorio la renderanno una nazione libera, sovrana e indipendente, oppure no?
Ragion per cui i meccanismi per garantire l'Ucraina sono il corollario dell'equazione «territorio in cambio di sicurezza» ma nel contempo ne sono anche il nocciolo. E intervengono pure sull'equilibrio della soluzione che si darà alla guerra. Perché si può dire ciò che si vuole ma al netto dell'ipocrisia che accompagna spesso la diplomazia, è evidente che una garanzia di sicurezza disegnata sul modello dell'art.5 del patto atlantico, gestita dagli europei sul campo e dagli Stati Uniti in cielo, equivale ad una piccola Nato: se non è zuppa è pan bagnato.
Alla fine della guerra, quindi, la Russia rispetto alla situazione precedente si ritroverebbe con altri due paesi che fanno parte dell'Alleanza (Svezia e Finlandia) e un altro che vi aderisce per via indiretta (Ucraina). Un dato che riequilibrerebbe non poco quel 20% di terre ucraine concesse a Mosca. Ma è anche la ragione per cui ieri Trump ha vestito per una volta i panni del pessimista: «Possibile che Putin non voglia l'accordo».