
«Entro una, al massimo due settimane, l'Iran si troverà di fronte a un dilemma: tentare di salvare il regime in una formula ridimensionata, accettando le dure condizioni americane, oppure dire di no alla trattativa con gli Stati Uniti, per tentare di salvare la faccia ed evitare l'umiliazione, dando però così il via all'inizio della fine del regime». A delineare le prospettive che attendono la Repubblica islamica è Giora Eiland, general maggiore dell'esercito israeliano, ex capo del Consiglio di Sicurezza nazionale dello Stato d'Israele. Oggi fra i più accreditati analisti strategici internazionali, tuttora coinvolto in consultazioni di alto livello con la Difesa di Tel Aviv, Eiland non dà affatto per scontato che gli Stati Uniti si uniscano senza esitazioni alla campagna militare contro l'Iran, nonostante le dichiarazioni e indiscrezioni delle ultime ore. Gli scenari che il generale prospetta sono tre. «Il primo è che gli Usa non facciano nulla e si godano i successi israeliani, fino a che l'Iran non deciderà di tornare al tavolo delle trattative». Il secondo scenario prevede l'opzione che gli Stati Uniti si uniscano alle operazioni militari contro l'Iran, circostanza in cui spera il primo ministro israeliano Netanyahu. «Ma non è così ovvio - spiega a Il Giornale l'alto ufficiale israeliano, che è anche ricercatore senior all'Istituto per gli Studi sulla Sicurezza nazionale israeliana (Inss) - Gli Usa sono riluttanti per via degli attacchi che subirebbero nel Golfo. Sanno che l'Iran lancerebbe razzi contro le basi americane e contro altri interessi americani nel Golfo. L'Iran non ha molti missili a lungo raggio che possono raggiungere Israele - aggiunge Eiland - ma ha ancora centinaia di missili e decine di lanciatori che possono colpire interessi americani nel Golfo. Si tratta di possibili obiettivi a 200-300 chilometri dall'Iran, nel Sud del Paese che non è sotto la superiorità aerea di Israele. Ecco perché gli americani ancora esitano». Terza ed ultima opzione, quella che il generale a due stelle ritiene probabile: «A un certo punto gli americani chiameranno gli iraniani al tavolo del negoziato, ma Washington avrà richieste molto dure. Chiederà che Teheran abbandoni completamente il programma nucleare. Che abbandoni la produzione di missili a lungo raggio e non da ultimo che la faccia finita con il sostegno e la regia dei proxy, cioè delle milizie filo-Iran nella regione, a partire da Hezbollah in Libano». Da qui il bivio in cui si troverebbe la Repubblica islamica: «Il dilemma sarà se accettare le condizioni di Trump e mettere fine a tutti i sogni del regime iraniano, lasciando che si volatilizzino miliardi di dollari spesi negli ultimi anni, pur di salvarsi. Oppure rifiutare e condannare il regime all'inizio della sua fine, magari avviando un attacco preventivo contro gli Stati Uniti». Per la Guida Suprema d'Iran, Ali Khamenei, d'altra parte, «la totale distruzione di Israele è la sua missione politica e il suo destino religioso».
Il cambio di regime? Per il maggior generale è un obiettivo «implicito» di Benjamin Netanyahu, che spera nella rivolta dei civili iraniani, ma non è quello dichiarato di questa guerra. Va precisato che, anche senza le bombe americane da 14 tonnellate capaci di penetrare sottoterra nella centrale di Fordow dove si arricchisce l'uranio, «alla fine della campagna militare contro l'Iran, Israele riuscirà nel suo duplice scopo di riportare di due-tre anni indietro sia il programma nucleare che quello missilistico iraniano, grazie alla distruzione di rampe di lancio, lanciarazzi e anche di quei siti energetici dove la bomba viene assemblata una volta che l'uranio è arricchito».
Israele lavora già con qualche gruppo di opposizione? «Finora non c'è alcuna cooperazione formale, ma presumiamo ci siano organi a vari livelli che ci aiutano. Alcune informazioni cruciali è probabile che siano state fornite da elementi locali». «C'è una parte dell'opinione pubblica iraniana pronta al cambiamento di regime, che ha già gusti e un approccio occidentale, dalla musica agli abiti». Da loro sta arrivando la richiesta di agire anche contro i basij, gli agenti della sicurezza interna che da 40 anni soffocano le rivolte in Iran. «Ci chiedono di bombardarli, perché solo liberandosene potrebbero cominciare a organizzarsi in un'opposizione.
Ma al momento i basij non sono un obiettivo israeliano». Si rischia un vuoto pericoloso? Né il regime né la democrazia? «Non credo. Sono convinto che per gli iraniani non sarà difficile creare una società di successo dopo che si saranno liberati del regime esistente».