Ucraina, guerra mondiale? Sì, ma a pezzi

In un solo anno nel mondo ha causato 170mila morti I conflitti si allargano e sono sempre più collegati Tra i primi a intuirlo è stato Papa Bergoglio: ci sono moltissimi focolai sparsi in tutto il pianeta, ma c’è un filo che li unisce. La globalizzazione non ha portato la pace: ha creato una matassa geopolitica difficilissima da sbrogliare

Ucraina, guerra mondiale? Sì, ma a pezzi

Dall'inizio del suo pontificato, Papa Bergoglio ha ripetutamente utilizzato l'espressione «guerra mondiale a pezzi». Un modo per descrivere il fatto che, seppur sottotraccia, il pianeta è attraversato da una serie di conflitti sempre più collegati. Negli ultimi mesi l'evidenza dell'analisi del Pontefice, che qualche anno fa poteva sembrare fantapolitica, si è accentuata. Al tema, ad esempio, dedica ampio spazio il mensile Vita di febbraio (che ringraziamo anche per i dati riportati nel grafico), riprendendo nella titolazione l'espressione del Papa: il titolo del gruppo di approfondimenti è La guerra mondiale a pezzi. E i numeri danno l'idea dell'entità dei conflitti in corso. In un solo anno nel mondo si sono contati quasi 170mila morti.

Soltanto la guerra civile, perché di fatto è tale, che il Messico combatte contro i cartelli della droga è costata 6mila morti. E sono cinquanta i Paesi che al momento vengono considerati coinvolti in conflitti di varia natura. Ci sono casi estremi come quello del Myanmar, in cui la nazione è letteralmente implosa e sono attivi più di 1500 gruppi armati. Ovviamente in questo quadro spiccano in particolare la guerra in Ucraina, il conflitto nella striscia di Gaza, gli attacchi dei ribelli Houthi e lo scontro silenzioso attorno a Taiwan e più in generale nel mare della Cina. Del resto il collegamento tra queste zone calde e molte altre zone di instabilità è sempre più evidente. Si è a lungo sperato che l'economia globalizzata prevenisse i conflitti; ha invece creato un nuovo modello di scontro. Non siamo più alla guerra fredda d'antan, ma alla guerra rateizzata, portata avanti mentre i sistemi economici continuano a restare avviluppati gli uni negli altri.

Partiamo da un esempio banale. La guerra mondiale a rate è anche una guerra di microchip. Tra le prime iniziative portate avanti dall'Occidente per mettere in difficoltà la Russia c'è stato il tentativo di bloccare le esportazioni di microchip sofisticati verso Mosca. Tanto che i russi hanno iniziato a modificare i microchip delle comuni lavatrici per utilizzarli nei loro carri armati. Il progresso in questo settore è stato tale che un comune chip da lavatrice di oggi è decisamente più intelligente dei chip che si usavano nei sistemi d'arma degli anni Novanta del secolo scorso.

Per di più, molti microchip fabbricati negli Usa vengono normalmente venduti alla Cina. Non è un commercio che possa essere fermato (è un mercato troppo importante) e da lì, secondo molte fonti, vengono triangolati in Russia. Contemporaneamente, però, la Cina, che dipende dai microchip degli Usa per molti versi, minaccia Taiwan, dove si trova la fabbrica di microprocessori più sofisticati del mondo. Se Taiwan cadesse in mano cinese, tutto il sistema dell'economia mondiale ne verrebbe stravolto. Per averne un'idea basta leggere il saggio Chip War (Garzanti, pagg. 422, euro 22) dell'esperto di storia internazionale Chris Miller. Se la Russia avesse potuto invadere impunemente l'Ucraina, come si sarebbe comportata la Cina con Taiwan? E il vantaggio dell'Occidente con cui vengono aiutati gli ucraini dipende anche da Taiwan. Ma questo vantaggio funziona vendendo microchip ai cinesi che li rivendono ai russi e minacciano appunto Taiwan. Un rompicapo? No. La norma della guerra mondiale a rate.

Del resto il movimento circolare non si ferma qui. La Russia, per concentrare la propria produzione e le proprie risorse limitate, si è ampiamente rivolta all'Iran per la fornitura di droni e loitering munition, le munizioni circuitanti, come il noto Shahed 136, e alla Corea del Nord per la fornitura di munizionamento tradizionale.

Ma l'Iran è anche l'alleato principale di Hamas nella Striscia di Gaza, di Hezbollah in Libano e degli Houthi in Yemen (ma la lista degli alleati della Repubblica Islamica sarebbe ancora più lunga). Quindi l'attacco a Israele di Hamas, parzialmente spalleggiata da Hezbollah, e la conseguente minaccia degli Houthi ai commerci mondiali che passano vicino al Corno d'Africa, dipendono da un alleato di Mosca. E in molti hanno visto l'attacco a Israele come un potente disturbo all'azione di sostegno dei Paesi occidentali a Kiev. Di certo gli Usa hanno dovuto indirizzare parte dei loro aiuti militari verso Israele.

Fantapolitica? L'azione degli Houthi ha creato una situazione davvero fluida per la Cina. Al 15 dicembre scorso, la spesa per spedire un container da Shanghai era già salita dell'11,2 per cento rispetto alla settimana precedente. Senza grandi alternative, il colosso dei trasporti marittimi cinese Cosco è una delle compagnie che hanno deciso di deviare per il Capo di Buona Speranza. E il produttore di automobili cinesi Geely recentemente ha annunciato ritardi sugli ordini dall'Europa. Può quindi risultare strano che, nonostante i costi e i rischi, Pechino abbia boicottato l'operazione internazionale Prosperity Guardian, diretta dagli Stati Uniti. Soprattutto considerato il tradizionale protagonismo cinese nelle missioni multilaterali anti-pirateria. E considerata la posizione strategica della base militare cinese a Gibuti. La ragione è politica. Peserà di più la geopolitica o la necessità economica?

Esiste un continente ad altissimo livello di conflittualità, l'Africa, e in questo ambito si muovono sia la Cina, sial la Russia. La Cina soprattutto con i capitali, la Russia anche con il mercenariato. È una delle frontiere dei possibili conflitti, ma anche dello sviluppo futuro. Come raccontava Federico Rampini - il suo saggio più recente è La speranza africana. La terra del futuro concupita, incompresa, sorprendente (Mondadori) - in una intervista al Giornale: «La Cina ha approfittato del fatto di non avere un passato coloniale (non a quelle latitudini) per vendersi come un aggressivo partner commerciale. Solo ora alcuni Paesi iniziano a capire che avere a che fare con Pechino può essere peggio che avere a che fare con Washington o con le capitali europee. Di certo però, se l'Europa non rifletterà su questi temi perderà un treno importante. Per se stessa e per l'Africa».

Non bastasse questo livello di scontro, complesso ma palese, esiste anche un livello di conflitto sotterraneo. Arriva oggi in libreria La guerra delle spie. Washington contro Pechino (Castelvecchi) di Alberto Bellotto e Federico Giuliani. Il saggio è istruttivo sotto vari punti di vista per capire quanto la battaglia delle spie cinesi e americane non sia limitata a quella che è stata definita da più parti l'era della «guerra senza limiti», ma si collochi all'interno di un processo più ampio con il quale i due apparati contrapposti mirano a fare, gli uni rispetto agli altri, intelligence. Ovvero a comprendersi reciprocamente per prendersi le misure. Questo prendersi le misure serve anche a impedire che i pezzi della «guerra mondiale a pezzi» finiscano per saldarsi nel modo sbagliato.

Sino a ora molto spesso le premesse con cui i due giganti si sono mossi si sono rivelate errate. Come spiegano Bellotto e Giuliani: «Gli anni Novanta avevano distorto la visione del mondo degli americani. Il successo contro l'Unione Sovietica nella Guerra Fredda aveva creato in Washington la convinzione di essere la potenza egemone sullo scacchiere globale». Insomma una globalizzazione semplicemente da governare. Una globalizzazione in cui la Cina, parole di Clinton, «unendosi al WTO», «non accetta solo di importare una maggiore quantità dei nostri prodotti, accetta di importare uno dei valori più cari della democrazia: la libertà economica».

Leggendo L'arco dell'impero (in Italia per i tipi di Leg) del generale Liang Quiao sembra che la Cina punti molto più a un destino imperiale che a quello di una grande democrazia liberale. E i suoi generali considerano, a torto o a ragione, gli Usa un altro impero. Ecco che allora la definizione di Bergoglio, per altro ripresa anche da svariati studiosi di geopolitica, assume dei contorni molto ampi in cui filiere di affari, ragnatele di spie e sotterranei scontri in Rete per controllare l'opinione pubblica si mischiano con conflitti guerreggiati a colpi di droni e armi tradizionali. Nel mezzo, l'uso dell'intelligenza artificiale che incombe.

Del resto una guerra frazionata su più piani e sempre più tecnologica rischia di superare la capacità umana di calcolo. Con tutti i rischi che ne conseguono. Mentre la preoccupazione di Bergoglio, e di molti altri, non sembra in grado di portare verso la pace (né a pezzi, né intera). Almeno non in tempi brevi.

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