Guido Piovene

Le Furie lo lasciarono in pace per quindici lunghi anni. Era finita la guerra, cominciata la ricostruzione e nel decennio dei Cinquanta Guido Piovene era l’inviato-principe, l’intellettuale autorevole, il romanziere dal sicuro talento e da cui tutti attendevano il capolavoro definitivo. Come molti scrittori della sua generazione (era nato nel 1907), fascista durante il fascismo si era ritrovato antifascista a regime caduto e poi, per una sorta di sindrome da orfano di totalitarismo, comunista, il «conte rosso» come lo definiva la stampa di destra dell’epoca.
Nel «ritratto» che Indro Montanelli gli fece allora, questo camaleontismo era ritenuto un elemento secondario: «C’erano degli ingenui che se ne stupivano, senza punto riflettere che Guido era stato sempre di qualche colore e che nessuno di questi colori gli si era mai intonato più di quanto gli s’intonasse quello». Compagni di stanza e di lavoro al Corriere della Sera (e un quarto di secolo dopo fianco a fianco nel fondare il Giornale), a Montanelli di Piovene interessava la psicologia più che l’ideologia, l’impasto di crudeltà e bontà, di dolce perfidia che lo accompagnava come una sorta di leggenda nera. Aristocratico per nascita, elegante, la passione per il gioco unita all’uso di mondo, conversatore affascinante, aveva una bocca molle, dalle labbra tumide, e occhi azzurri, freddi e trasparenti, dentro i quali, scriverà, guizzava «il lampo di una fiamma: una fiamma ossidrica». Era la «leggenda nera» di un François Mauriac veneto a proprio agio nel vedere il Diavolo sotto le spoglie del Buon Dio, nel tenere l’acqua benedetta nel bidet più che nell’acquasantiera.
Montanelli riassumerà il tutto così, da par suo: «Vedevo spesso la sua bocca compitare le parole che la sua penna vergava e commentarle con smorfie, sorrisi, risatine. Una volta, a mezzo di una di queste risatine, un campanello squillò che chiamava Piovene dal direttore. Guido abbandonò di colpo la penna e uscì. Molto indiscretamente io mi alzai e andai a leggere cosa stava scrivendo in quel momento, che stimolava tanto il suo buon umore. La frase diceva: “La nonna giaceva morta, tutta rattrappita come una lucertola nel suo letto”»...
Fosse stato veramente così, le Furie non avrebbero preso a perseguitare Piovene. Se la sua essenza fosse stata la registrazione più o meno compiaciuta della miseria umana e l’apparenza il cambiare idea come si cambia un vestito, non lo avrebbero posseduto con così tanta ferocia, né lui si sarebbe fatto dilaniare con così tanto masochismo. C’era qualcosa di più profondo, e di più contorto, di cui già da giovane rampante del mondo letterario era stato consapevole: «Due fatti ho osservato in me stesso. Io sono sempre e perdutamente convinto della idea che sostengo. Io cambio spesso idea». Trent’anni dopo avrebbe rincarato: «Non si può vagliare o scartare qualsiasi idea rimanendone esterni, in puri termini di critica e di pensiero. La mia tendenza è essere di quell’idea e di portarla avanti finché mi diventa necrotica».
Le Furie è il tuo passato che ti chiede il conto. Arrivarono nel 1961, sotto forma di un saggio di Renzo De Felice, Storia degli ebrei durante il fascismo, e dell’autobiografico Il lungo viaggio attraverso il fascismo di Ruggero Zangrandi. Raccontavano il Piovene fascista e antisemita, il corrispondente della guerra di Spagna e il recensore dell’Antijudeos di Telesio Interlandi. Lo raccontavano a petto di un altro Piovene, certo non più fascista e nemmeno il «conte rosso» dei tempi montanelliani, ancora «compagno di strada», ma dotato di una propria autonomia, spessore, carattere. Ma se quell’«io» era «un altro», chi era allora veramente Piovene? Chi era questo romanziere che non scriveva più un romanzo dal dopoguerra, chi era questo giornalista capace di raccontare la psicologia degli italiani, degli americani, dei francesi, ma non la propria?
Piovene rispose in due modi, da giornalista e da romanziere. Nella prima veste scrisse La coda di paglia, che è un pamphlet coraggioso, ma anche ambiguo, autoaccusatorio eppure gesuitico, su cui non ci soffermeremo. Nella seconda scrisse Le Furie che è un capolavoro, nonché il suo libro più importante, e bene ha fatto l’editore Aragno a riproporlo ora, con una post-fazione di Guido Ceronetti (pagg. 378, euro 15) affiancandogli anche Il lettore controverso. Scritti di letteratura (pagg. 406, euro 25) che raccoglie un’antologia della sua produzione giornalistica, dagli esordi alla morte, e si avvale di una accurata e illuminante introduzione di Giovanni Maccari.
Pur se scritti a ridosso, La coda di paglia e Le Furie sono fra loro distanti anni luce. Se il primo nasce da un’esigenza immediata di reagire al fiume di accuse e di calunnie che gli si rovescia addosso, il secondo è qualcosa che sedimenta da moltissimi anni, «una costruzione fantastica e intellettiva, una folla di personaggi, ognuno dei quali portava una parte di me, ma lo sapevo solo io, nessun altro doveva dirlo con certezza». Un vero romanzo d’intreccio, insomma, che lo dovrebbe tirare fuori dall’impasse in cui le «costruzioni artificiali» della sua narrativa (epistolari a cornice o in forma di dialoghi) lo hanno imprigionato. Solo che, nel mentre lavora in tal senso, il romanzo d’invenzione gli appare sempre più inutile: «Il primo presupposto di ogni scrittore serio, è di considerare quello che scrive urgente per se stesso». Sempre più il grande romanzo, quello di Mann, di Musil, di Pasternak, ha senso se «è una vera e propria ed esplicita opera di cultura, alla stessa stregua di un saggio che discute e conclude idee, con qualcosa in più. “In più” significa una carica straordinaria di emozione individuale e di fantasia, sempre però nell’ambito delle idee che trattengono l’interesse di tutti».
Sotto l’incalzare delle Furie, quel romanzo così a lungo pensato e scritto, «l’opera-morta di un morto-vivo, impantanato in una disperata incapacità di esistere», esplode, va in pezzi ed è da questa esperienza che Le Furie prende forma, storia e memoria, autobiografia e saggio, riflessione e confessione. Dentro c’è la provincia in cui è vissuto, il groviglio di vipere e l’intruglio di ipocrisie, i piccoli cinismi e la misantropia cronica, il carattere veneto «che elude finché può le scelte e non vuole rinunciare a nulla», l’educazione materna che emana i veleni del proprio tempo, il carattere nazionale: «questo popolo chiesastico a cui è sempre stato vietato di essere religioso, ragionevole a cui hanno impedito di essere razionale»... Soprattutto, c’è quella «violenza subdola che è l’atonia quotidiana del cuore», «la pratica viziosa di un mondo che vuol essere insieme sociale e misantropo. Vi è un retroscena di idiozia che mi mette i brividi... La nevrastenia, d’un tratto, si troverà di fronte all’ebetudine che le darà scacco matto». C’è dietro Le Furie l’insegnamento di Umberto Saba: «Gli esseri più pericolosi, più dannosi agli altri non sono le canaglie coscienti, i cinici, i mentitori volontari, ma gli oscuri, i confusi, i sentimentali falsi, quelli che fanno il male e credono di fare il bene, e ignorano i veri motivi delle loro azioni che perciò sfuggono sempre dalle loro mani e mettono il mondo a soqquadro».
Di questo tipo umano Le Furie è pieno: donne frigide che si credono sante, uomini viziosi che si sentono galantuomini, madri feroci che si ritengono esemplari, preti la cui fede è volontà di dominio. Ma in questo tipo umano c’è anche Piovene, anche lui appartiene «al mondo delle anime decomposte» che emette «servitù, terrori, rimorsi, staccati dal loro soggetto, che tornano su di lui, emissari separati sempre più stupidi di un mondo incomprensibile, non più volti ma assilli. Gli stormi delle Furie convulse e senza pace non sono ancora il peggio. Peggio è la seconda ondata, le nostre furie senza dolore, il vuoto diventato l’unica percezione possibile, l’ebetudine fondamentale. Sono vissuto in bilico tra due versanti, una finzione che disintegra e una verità che brucia, e né l’una né l’altra sono idonee alla vita. Ho imparato che avrò soltanto quello che saprò darmi. Il resto si trasforma subito in Furia. Bisogna creare per essere, l’alternativa sono le Furie o il niente, e i modi di creare sono molti, ciascuno ha il suo. Solo nella creazione gli uomini possono incontrarsi, cioè diventare anime.

Il mondo umano è un ammasso crescente di opere e non d’anime regalate. Ogni altra pretesa è schiavitù o violenza, e chi vuole intendere, intenda».
Chapeau, viene da dire ancora oggi, a quarant’anni e passa di distanza.

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