Gullotta, l’amaro piacere dell’onestà

Abbiamo finalmente assistito a un'edizione del «Piacere dell'onestà» in linea con la volontà dell'autore, troppe volte frainteso nella sua tesi di fondo da una malintesa interpretazione del suo contenuto. Universalmente elogiato come la quintessenza del buonismo per eccellenza nell'universo aspro e disincantato di Pirandello. Dimenticando che il poeta di Girgenti l'aveva concepito, al di là dell'happy end, come una commedia nera e sarcastica in tenace opposizione, dal principio alla fine, ai valori comunemente invalsi nella borghesia del suo tempo. Una tesi solo adombrata dai nostri teatranti ad eccezione, molti anni fa, dell'edizione sulfurea e sopra le righe di Massimo Castri che tramutò il testo in un fremente atto d'accusa di sapore anarchico che, per altra via, ne travalicò l'assunto. Ma bando alla tristezza. Dato che oggi, per fortuna, il gran testo viene ricollocato al posto che gli compete da Fabio Grossi regista e Leo Gullotta, sensibile interprete di un personaggio del calibro di Angelo Baldovino. L'uomo che accetta di sposare Agata, la ragazza incinta del marchese Fabio Colli. Il quale, già ammogliato, non potendo regolarizzare il legame con la giovane donna, accetta per salvaguardare il buon nome dell'amata che uno sconosciuto si unisca a quest'ultima in un matrimonio di pura facciata. Prima che Agata, sedotta dall'onestà di questo marito di comodo, decida di vivere con lui abiurando l'ipocrisia familiare per praticare ed esprimere, per mezzo di Angelo, un nuovo concetto di morale pubblica e privata. Ma veniamo allo spettacolo che, in scena al Teatro Nuovo fino al 2 maggio (info: 02-794026, www.teatronuovo.it), è prima da vedere e poi da condividere con la gioia di chi ha ritrovato un amico. Vi chiederete come mai e io ve ne spiego la semplicissima ragione. In questa edizione, per la prima volta la commedia si libera dal polveroso cliché che le grava addosso da tempo per assumere finalmente il volto che le spetta: quella dell'apologo o, meglio ancora, dell'operetta morale tanto cara a Leopardi. A cominciare dal quadro silvestre e boschereccio, che allude allo spirito di una società lontana anni luce dal mondo d’oggi, in cui l'ha precipitata uno scenografo di grido come Luigi Perego. Che ambienta la favola in una casa di vetro simile a un eccentrico gazebo da giardino dove tutti e ciascuno si specchiano e si spiano tra le nevrosi isteriche delle signore traumatizzate dal parto tanto indesiderato. Commentato al proscenio dall'isteria di un padre naturale scostante e irriverente, del tutto inadatto a ricoprire il ruolo che gli spetta (un'ottima prova di Martino Duane). Fino all'apparizione stralunata e intensa di Gullotta che, come un signore rimasto miracolosamente illeso dall'avvento impietoso dei tempi moderni, si muove col passo felpato e la suadente maschera infantile di un folletto della stessa specie che generò Peter Pan.

Tanto solare e fiducioso nell'innata bontà della sua causa da sfiorare il ridicolo quando si ostina a dare al neonato l'antico nome della propria famiglia. Quasi presago che solo in lui, padre putativo di una creatura non sua, il bimbo possa trovare l'amore protettivo che compete a un autentico genitore.

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