Ha inventato la macchina che smaschera i mentitori

Assassini che si proclamano innocenti. Reduci dall’Irak che si fingono afflitti da allucinazioni e paranoie, il cosiddetto disturbo post-traumatico da stress, e fanno causa al governo degli Stati Uniti. Depressi immaginari. Campioni dello sport che si dopano. Calciatori esordienti che mentono sulla loro età anagrafica per fregare le società che li ingaggiano a peso d’oro. Automobilisti reduci da un tamponamento che simulano cefalee da colpo di frusta per riscuotere risarcimenti dalle compagnie d’assicurazione. Rapinatori e ladri. In prospettiva si potrebbero aggiungere coniugi infedeli, politici corrotti, millantatori di professione, finti veggenti, guaritori imbroglioni, santi falsi, diavoli veri. Non ha davvero limiti d’impiego la macchina della verità messa a punto dal professor Giuseppe Sartori, ordinario di neuroscienze cognitive e direttore della scuola di specializzazione in neuropsicologia dell’Università di Padova, e dai cinque ricercatori della facoltà di psicologia che insieme con lui hanno lavorato a questo progetto fin dal 2003. Anche se il cattedratico puntualizza che è una « macchina della memoria» e spiega che si limita a misurare i ricordi autobiografici, basandosi sullo Iat (Implicit association test) sviluppato dal suo collega Anthony Greenwald dell’Università di Washington, è un fatto che lo strumento funzionante davanti ai miei occhi è l’unico al mondo in grado di smascherare i bugiardi con un margine di dubbio non superiore all’8 per cento.
Di sicuro si tratta di un’evoluzione della prima macchina della verità custodita proprio nell’ateneo patavino e inventata nel 1914 dal professor Vittorio Benussi, che nel 1919 era approdato nel Lombardo-Veneto austroungarico dall’Università di Graz. Pochi anni dopo alcuni ricercatori americani sarebbero diventati famosi perfezionando la sua idea e nessuno ha mai chiarito se vi sia stata questa frustrazione dietro la penosa forma maniaco-depressiva che nel 1927 indusse Benussi a porre fine ai suoi giorni bevendo un tè al cianuro. Il suicidio venne scoperto dal suo assistente, quel Cesare Musatti che sarebbe diventato il padre della psicoanalisi italiana. Il professor Sartori, a scanso d’equivoci, la propria invenzione l’ha fatta brevettare negli Stati Uniti dall’Università di Padova. Dimostrando, anche in questo, d’essere degno erede di sua madre, una maestra elementare di Treviso discendente dal medico romano Giovanni Maria Lancisi (1654-1720), che fu l’archiatra di tre pontefici e diede il proprio nome a una parte del corpo calloso del cervello.
La macchina della verità tradizionale, detta anche poligrafo, si basa sulla misurazione dei parametri fisici che cambiano in chi dice il falso e cioè sbalzi nella frequenza cardiaca, variazione respiratoria, conduttanza cutanea (aumento della sudorazione), potenziali evocati (l’attività elettrica cerebrale che segue a uno stimolo). Ma ha un punto debole che la rende scarsamente affidabile: non riesce a individuare la persona innocente che si fa prendere dall’ansia per la paura di non essere creduta. La macchina della memoria, al contrario, non è influenzabile dallo stress. Infatti misura soltanto i tempi di reazione nelle risposte alle domande - cronometrati al millisecondo da un software - e li confronta con quelli di altre risposte, sicuramente vere, date in precedenza dall’interrogato a quesiti molto banali, del tipo «Il tuo cognome è Sartori?». L’intero test richiede soltanto un computer e una tastiera, sulla quale il soggetto deve limitarsi a pigiare la lettera «A» per rispondere «vero» e la lettera «L» per «falso».
La macchina della memoria ha avuto il suo battesimo di fuoco lo scorso 29 agosto in tribunale a Como, quando Luisa Lo Gatto, giudice dell’udienza preliminare, ha condannato a 20 anni, anziché all’ergastolo, Stefania Albertani, 28 anni, una donna che nel 2009, dopo aver causato il dissesto finanziario dell’azienda di famiglia, uccise la sorella Mariarosa, 40, e ne bruciò il cadavere, dopodiché tentò di strangolare anche la madre. Dall’esame svolto in carcere dal professor Sartori, col supporto del collega Pietro Pietrini, ordinario di biochimica e biologia molecolare clinica nella facoltà di medicina dell’Università di Pisa, è emerso che l’imputata è vittima di un’amnesia dissociativa e presenta una doppia personalità, un po’ come Norman Bates, l’assassino che in Psyco di Alfred Hitchcock assume l’identità della madre dopo averla uccisa e trasformata in una mummia da conservare in cantina. In pratica quando la Albertani afferma di non ricordare d’aver ammazzato la sorella, la sua testimonianza va considerata genuina e non frutto di menzogna. Per cui il giudice le ha riconosciuto il vizio parziale di mente. «Si tratta del primo caso in Italia, e uno dei primi al mondo, in cui le neuroscienze vengono utilizzate per vagliare l’imputabilità», ha spiegato l’avvocato Guglielmo Gulotta, legale della Albertani. Non a caso la sentenza basata sulla macchina della memoria è stata subito riportata sul sito di Nature, la rivista più accreditata presso la comunità scientifica internazionale di cui il professor Sartori fa parte a pieno titolo, visto che, oltre a dirigere il master in neuropsicologia forense dell’Università di Padova, è anche studioso di neuroetica e libero arbitrio.
Sentenza storica.
«In effetti non succede quasi mai che un giudice sposi la tesi dei consulenti della difesa e dia torto al proprio perito, il quale aveva dichiarato l’imputata sana di mente. Il primo a intuire che nella Albertani qualcosa non funzionava è stato l’avvocato Gulotta, che è anche psicologo forense. La sua cliente diceva d’essere incinta, e non lo era; diceva d’essere fidanzata, e non lo era. Il legale ha quindi chiesto a me e al professor Pietrini di studiare la memoria e il cervello della Albertani».
In pratica che cosa avete fatto?
«Per prima cosa abbiamo verificato che il metodo funzionasse bene anche con l’imputata, vagliando se scopriva correttamente ricordi a noi noti come la sua data di nascita o il numero di fratelli. Il tempo medio di reazione per i ricordi veri era di 987 millesimi di secondo, mentre diventava di 3.068 per i ricordi falsi. Ciò significa un ritardo del 210 per cento nelle risposte alle affermazioni non vere e questo ha dimostrato che il metodo era applicabile anche all’Albertani».
Perché?
«Perché si risponde più velocemente a ricordi veri che a ricordi falsi. Quando il cervello deve inventare una bugia, attiva due aree del lobo frontale: il giro cingolato, che blocca la risposta vera, quella che uscirebbe dalle labbra automaticamente, e la corteccia frontale dorso-laterale, che produce la menzogna e ne verifica la tenuta logica. Questa doppia operazione comporta un ritardo. Alla Albertani abbiamo sottoposto in ordine casuale affermazioni della difesa e affermazioni dell’accusa, obbligandola a esprimersi con un “vero” o un “falso”. E i tempi di reazione ai ricordi veri sono stati rapidissimi, il che ci ha permesso di concludere con una diagnosi di amnesia dissociativa. L’Albertani è quindi attendibile quando ci racconta di non ricordare nulla del delitto».
Ma siamo certi che un ritardo nella risposta sia indizio di un ricordo?
«Sì. Il fenomeno è chiamato effetto compatibilità. Immagini di guidare un’auto con le gambe incrociate. Lei diventerà molto lento e inaccurato nei movimenti e questo perché nel nostro sistema nervoso il piede destro è associato all’acceleratore e il suo spostamento a sinistra, per comandare la frizione, determina una condizione di incompatibilità. Dalla maggior rapidità e accuratezza del movimento ricaviamo la condizione compatibile, cioè quella più naturale. In pratica, nello Iat si determina una condizione di conflitto cognitivo che si riflette in un allungamento dei tempi di reazione e in un aumento degli errori e da questo stato di cose si effettua la diagnosi».
È possibile alterare i risultati una volta eseguito il test?
«Quando in fase di taratura della macchina il soggetto risponde alla prima batteria di domande, quelle relative a fatti su cui esiste un’assoluta certezza, il programma produce automaticamente un file che viene criptato con un algoritmo di sicurezza, lo stesso usato per le transazioni bancarie su Internet. Questa impronta digitale rimane per sempre, non può essere manipolata e consente a chiunque di verificare la correttezza delle conclusioni partendo dal dato originario».
Su quante persone è stata sperimentata la macchina della memoria?
«Circa 2.000 casi in Italia, Usa, Regno Unito e Germania. Il percorso di validazione seguito va dal laboratorio alle ricerche sul campo, un po’ come succede per i farmaci».
Quindi potrebbe sottoporre al test anche Annamaria Franzoni e dipanare finalmente il mistero di Cogne.
«Già fatto».
E che cosa è emerso?
«Che la Franzoni non simula quando giura la propria estraneità al delitto. Il che non significa che non possa aver ucciso il piccolo Samuele. Però certamente nella sua memoria non v’è traccia di questo tragico evento. Ha un ricordo di se stessa innocente».
Ma se la sua macchina è soggetta a un margine d’errore dell’8 per cento, come si può usarla in un processo?
«Osservazione molto ragionevole. Ma se consideriamo questo livello di accuratezza insufficiente, allora dobbiamo buttar via molti metodi scientifici. Le diagnosi dei disturbi di personalità sono attendibili al 55 per cento. Nel caso Albertani sei periti hanno dato sei pareri diversi. Perfino nell’esame del Dna, da tutti giudicato infallibile e dirimente, in certe condizioni vi è un margine d’errore. Rispetto al vecchio poligrafo, che sbaglia nel 35 per cento dei casi, direi che abbiamo fatto un bel salto in avanti».
La macchina della memoria può avere un peso processuale?
«Lo ha già avuto. Un mio collaboratore l’ha usata nel caso di don Giorgio Panini, il sacerdote che ha accoltellato a morte un anziano di Vignola e poi ha tentato di ucciderne la moglie e il figlio. Può essere utile nei processi che si basano sulla sola testimonianza, come quelli per pedofilia. Si è affidata a me una delle maestre dell’asilo di Rignano Flaminio. Mi ha pure cercato, ma per ben altri motivi, Carlo Ancelotti, allenatore del Chelsea».
Che c’entra Ancelotti?
«Sono volato a Londra per appurare la vera età di alcuni calciatori provenienti dall’Africa che sostenevano d’avere 15 anni e invece andavano per i 22...».
Vi sono accorgimenti per scoprire, anche senza macchinari, se la persona che abbiamo davanti sta mentendo?
«Le ricerche scientifiche sono chiarissime al riguardo: la possibilità di smascherare un bugiardo dall’interazione è bassissima, persino se a provarci sono degli investigatori di professione. Segnali che vengono spacciati come predittivi al riguardo, per esempio lo sfregarsi la punta del naso mentre si racconta una balla, non sono affatto sicuri. La specialista in materia è la professoressa Bella De Paulo, visiting professor di psicologia all’Università della California, secondo la quale su 10.000 persone solo quattro o cinque possiedono le competenze per individuare un bugiardo dalla sua gestualità».
In percentuale, quanto conosce la scienza delle potenzialità del cervello? Ho rivolto la domanda a molti medici e i più ottimisti non sono andati oltre il 20 per cento.
«Sappiamo pochissimo. Io starei sul 5 per cento. Conosciamo discretamente il funzionamento di ogni singola parte dell’encefalo, ma non il modo in cui le varie parti si raccordano fra loro. In altre parole non conosciamo come suona l’orchestra».
Se ne sappiamo così poco, perché si prendono decisioni di fine vita su persone prive di consapevolezza?
«Direi che questo dilemma si pone soprattutto nei casi di stato vegetativo persistente. Con la risonanza magnetica funzionale è stato dimostrato che alcuni soggetti in queste condizioni sono in grado di capire e di rispondere. A Liegi, in Belgio, un giovane di 29 anni, in stato vegetativo da cinque, ha mostrato tracce di attività cerebrale in risposta a semplici domande che gli sono state poste dai medici. Con le tecniche di brain imaging, a ogni quesito sono state fotografate le aree del “sì” o del “no” che si attivavano nell’encefalo, tutt’altro che spento».
Sia sincero, professore: lei ha mai detto bugie?
«A chi? A mia moglie?».
Anche.
«Solo white lies, bugie innocenti, che peraltro lo Iat riconosce. Lei m’invita a cena, mi chiede se è buona la pasta che mi ha preparato e io le rispondo “squisita” anche se è una schifezza. Insomma, bugie non malevoli».
Bella la sua macchina della verità, o della memoria che dir si voglia.

Ma ora provi a rispondere alla domanda rimasta in sospeso nel più celebre processo di tutti i tempi: «Quid est veritas?».
«Io mi occupo di sincerità, una cosa ben diversa dalla verità. La verità è una roba complicata che...». (Tace).
(560. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica