L'isola della speranza. Così le baraccopoli sognano il rinascimento

A "Cité Soleil", la più grande bidonville del Paese, macerie e tendopoli sono (quasi) un ricordo. La ricostruzione è in corso, anche se il cammino per uscire dalla povertà è ancora lungo

Una manifestazione anti-governativa a Haiti / Marco Gualazzini
Una manifestazione anti-governativa a Haiti / Marco Gualazzini

Degli stessi autori leggi anche il reportage "Il conflitto dimenticato tra cristiani e musulmani"

Da Port au Prince (Haiti) - C'era il cielo schizzato di fango. Ed era buio e freddo e inospitale. I palazzi si erano sbriciolati come castelli di sabbia, e poi la polvere, gli sciacalli. E i corpi sotto le macerie, non si sa nemmeno quanti. Non tornano mai i conti nei Paesi in miseria. Il sole che era andato a nascondersi per non vedere. E le vie che si erano inghiottite la musica e tutti quei colori, improvvisamente. Sono trascorsi cinque anni da quando la terra di Haiti, il 12 gennaio 2010, ha tremato per 53 interminabili secondi. Oltre 300mila persone sono morte, inghiottite dalla terra o schiacciate sottoterra. E poi l'epidemia di colera: altre 8600 vittime. Erano cinque anni fa, appunto. Oggi Haiti si è medicata un po'. Come ha potuto, dove è riuscita.

Per arrivare nel Paese conosciuto per il Voodoo, gli uragani, il terremoto e le dittature, bisogna attraversare tutta la Repubblica Dominicana e già da Santo Domingo si incominciano a percepire le trasformazioni in atto al di là del confine.

Alle prime ore del mattino, mentre attendiamo il pullman che ci condurrà a Petion-Ville, osserviamo nella sala d'attesa decine di lavoratori haitiani che vivono nella capitale dominicana e che stanno per tornare dai propri parenti a Port au Prince. Aspettano tra una moltitudine di bagagli e con una valigia leggera dell'inconsapevole, irrinunciabile allegria caraibica. Ridono, chiacchierano, parlano di politica, si scambiano dolciumi. E benché dopo, per tutti, ci sarà il ritorno a Santo Domingo, questo viaggio ha il sapore di un rientro a casa dopo la fine della guerra.

Li interroghiamo sulla situazione del loro Paese e tutti ci dicono che Haiti si sta riprendendo, che la rinascita è in ogni dove e che la tragedia è stata lasciata alle spalle. Superiamo il confine, attraversiamo i paesi e le campagne che rimandano a paesaggi africani. Osserviamo uomini che tornano dai campi, mercati ovunque e, una volta arrivati in città, ci immergiamo in un traffico infernale e in una frenesia che sa incredibilmente di globale.

La capitale di Haiti si svela all'indomani. Tagliata in due: ci sono i quartieri residenziali e le baraccopoli e decidiamo di addentrarci proprio qui perché, se è vero che una ripresa c'è, la si deve vedere da dove va peggio, da dove c'era la miseria più nera. Attraversiamo Cité Soleil, la shanty-town regno delle bande armate, che conta circa 500mila abitanti. Camminiamo tra le case in muratura, che portano crepe come cicatrici del sisma: alcuni bambini corrono scalzi tra le vie polverose, cani randagi mangiano tra montagne d'immondizia. Anche le facce sono indurite qui e i sorrisi sono chiusi. Allora dov'è la rinascita? Ma ci addentriamo ancora. Ci spingiamo nel budello dei vicoli di Cité Soleil, osserviamo uomini che con picconi e cemento ricostruiscono le abitazioni, donne che gestiscono i mercati, tutti impegnati a lavorare incessantemente, con la determinazione di chi vuole cambiare le cose. Orgoglio e fierezza: adesso sì che siamo dentro alle bidonville.

«Mi trovavo fuori da scuola. Poi, la scossa, all'improvviso. Ho visto davanti a me l'edificio crollare. Non sono riuscito neppure a gridare; dentro all'istituto c'erano gli amici, i ragazzi che conoscevo. Io, salvo per miracolo, ho assistito impotente alla tragedia... di vederli sepolti vivi». È così che ricorda Josué Touissant, 24 anni, seduto all'interno di un orto comunitario che sorge tra i vicoli di Cité Soleil, all'ombra delle piante che sopravvivono sulle rovine circostanti. Rammenta il passato e spiega: «Ma la gente ha reagito e stiamo ritornando a vivere, unendoci, come qua, al Jadin Tap Tap: in quest'orto lavorano oltre 100 persone in modo collettivo e chiunque può accedervi e prendere i frutti di cui ha bisogno, gratuitamente».

È come un'oasi di pace: ci sono dieci persone, vediamo le loro schiene ricurve che si muovono al ritmo della vanga. Lasciano gli attrezzi e ci vengono incontro, affaticati ma felici: «Si ricostruiscono le case e risorgono le vite delle persone, questo è uno dei tanti progetti che accoglie i ragazzi che facevano parte delle gang di strada», ci raccontano asciugandosi il sudore.

I numeri sulla ripresa dicono che sono stati rimossi il 97% dei 10 milioni di metri cubi di detriti, che sono stati costruiti 4 chilometri di nuovi argini per contrastare le inondazioni e che dei 1.800.000 profughi all'interno delle tendopoli, che si conteggiavano nei giorni dopo il sisma, oggi ne restano solamente 100mila. Eppure il cammino per ridare un volto nuovo ad Haiti è ancora lungo: i problemi non sono scomparsi, ma tutta la società si sta mobilitando affinché gli spettri del passato possano svanire, giorno dopo giorno; e uno dei tanti incubi di Haiti è la violenza sessuale sulle donne. Prima lo stupro era utilizzato come strumento di coercizione delle oppositrici politiche da parte dei diversi regimi poi, nei giorni seguenti al terremoto, nelle strade e nei campi profughi, gli abusi sono diventati una prassi quotidiana, tanto che un rapporto delle organizzazioni umanitarie ha stimato che il 14% delle famiglie haitiane, dal 2010 al 2012, contava al suo interno una persona vittima di sevizie.

Ne veniamo a conoscenza dall'associazione Kofaviv, un'organizzazione creata nel 2010 da Malya Villard Apollon, donna dell'anno per la Cnn nel 2012. L'organizzazione che ha fondato è formata principalmente da donne che hanno subito violenza: usano il loro dolore per aiutare altre donne vittime dello stesso traumatico dramma. Urlano il loro dolore per far capire che non è una colpa e che non vanno punite per questo, né ghettizzate, né dimenticate. Andiamo nel loro ufficio, un piccolo appartamento sulla strada che conduce all'aeroporto. Sono felici di vederci, felici del fatto che non siamo schizzinosi nell'occuparci di loro. Ci sono telefoni che squillano, riunioni con avvocati, incontri con medici e la determinazione e la volontà di chi è impegnato in un qualcosa d'importante: nonostante siano state vittime di gesti inumani, di carezze sporche e di ferite non rimarginabili, se lo dimenticano e ce lo fanno dimenticare.

Jocie Phirestine, una delle coordinatrici, spiega che Kofaviv, dal 2010 a oggi, ha dato supporto medico a più di 2mila donne e ha intrapreso oltre 450 azioni legali. Poi è Nadia Saintir, 20 anni, a parlare e ci descrive nei particolari l'aggressione che ha subito. Il suo racconto termina in singhiozzi. E noi restiamo in silenzio, impotenti. Ci corre in aiuto lei, che si schiarisce la voce e riorganizza le forze. Ricomincia a parlare, Nadia, anche se a fatica, e ci rendiamo conto che è un pianto di rabbia e che quella rabbia, oggi, è al servizio di una comunità intera perché nessuno debba condividere gli orrori del passato nell'Haiti del futuro.

La volontà comune di un nuovo inizio la incontriamo anche nei locali in cui la sera vanno in scena i concerti, nei centri culturali dove gli studenti universitari allestiscono spettacoli di teatro sperimentale, tra i pescatori lungo il molo e tra i muratori nei cantieri di Waf Jeremie, ma anche tra i viali del centro, tra le mille bancarelle e sui Tap-tap, i taxi colorati che attraversano tutte le vie cittadine.

L'eccitazione è palpabile e la popolazione intera sembra intraprendere un viaggio verso un «rinascimento» intimo e di tutti: gli haitiani vogliono riprendersi i sogni, i colori e la musica e vogliono ripulire il cielo dal fango e far tornare il sole. Haiti vuole dare uno schiaffo in faccia alla sua storia. Quella scritta con il sangue della sua gente un pomeriggio di cinque anni fa.

Degli stessi autori leggi anche il reportage "Il conflitto dimenticato tra cristiani e musulmani"

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