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Hamdi, «consegna temporanea» a Scotland Yard

Dopo il processo il terrorista tornerà in Italia per rispondere ai magistrati

Claudia Passa

da Roma

Per l’estradizione si prevedono tempi da record, ma il biglietto Roma-Londra non sarà di sola andata. La procura della Corte d’appello di Roma rompe il silenzio: per Hamdi Adus Issac si profila l’ipotesi della «consegna temporanea». Nell’udienza che si terrà il 17 agosto, il procuratore Alberto Cozzella è orientato a chiedere un trasferimento immediato ma provvisorio oltre Manica per l’etiope arrestato a Roma dopo il fallito attacco del 21 luglio alla tube, e accusato dal Crown prosecution service (la magistratura britannica) di associazione terroristica, detenzione di esplosivo e tentata strage. Dopo il processo e l’eventuale condanna (rischia l’ergastolo), Hamdi dovrà tornare a Roma, dove i pm Ionta e Saviotti del pool antiterrorismo hanno già chiesto e ottenuto la custodia cautelare in carcere con l’accusa di terrorismo internazionale. Sempre che, nel frattempo, il fascicolo aperto a piazzale Clodio - che mira ad accertare la natura dei contatti italiani del presunto uomo-bomba - non venga archiviato.
«Questa soluzione - spiega Cozzella - potrebbe soddisfare tutte le esigenze: quelle di Londra, che preme per avere Hamdi sotto la sua “potestà”, e quelle di Roma, che deve portare avanti la sua indagine», per capire se ad accogliere in Italia il fuggiasco sia stato un «reticolo» di contatti esclusivamente familiari o una vera e propria organizzazione sulla quale indagare a fondo. La richiesta del procuratore - che alle autorità britanniche ha già sollecitato una perizia sul contenuto dello zaino-bomba - sarà vagliata dal collegio della IV sezione della Corte, e se tutto andrà come previsto, l’ultima chance per Hamdi di restare in Italia (come ha sempre detto di voler fare) sarà tentare il ricorso in Cassazione tramite il suo legale Antonietta Sonnessa. La quale ieri è tornata a ribadire ciò che il suo assistito ha riferito agli investigatori di Scotland Yard nel corso dell’interrogatorio per rogatoria svoltosi martedì nel carcere di Regina Coeli: che «l’azione dimostrativa» era stata pianificata e messa a punto dopo le bombe del 7 luglio e la relativa ondata di repressione, che «non c’era alcun detonatore e quindi non si può parlare di ordigni inesplosi, perché gli zaini, imbottiti di farina per il pane acquistata vicino all’abitazione di uno dei complici e “conditi” con sacchetti di chiodi, erano predisposti per generare solo ciò che poi è accaduto, ovvero una fiammata e un botto». Che è «statisticamente impossibile un errore tecnico nel confezionamento di tutti e quattro gli ordigni».
La sua versione Hamdi la ripete fino alla noia. Al suo avvocato, nei lunghi colloqui, ribadisce che ha paura di morire; che non voleva uccidere, né tantomeno uccidersi. Ma il copione sembra non convincere né gli inquirenti italiani (che nell’appartamento del fratello Remzi, dove Hamdi è stato arrestato, hanno trovato alcune sim-card degli Emirati arabi e 121 carte telefoniche straniere prepagate), né gli inquirenti d’Oltremanica (che temono una strategia terroristica d’ampio respiro concentrata proprio sulla capitale inglese) né gli 007 dell’MI5 britannico.

I quali in raccordo con il Sismi hanno dall’inizio individuato, grazie a satelliti-spia sotto «ombrello Nato», non solo le utenze telefoniche che hanno consentito alla polizia di catturare il mancato kamikaze, ma anche altri contatti che dalla Gran Bretagna portano nel nostro Paese.

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