«Hanno spento i suoi occhi, non posso perdonare»

Alla vigilia del processo d’appello parla la vedova di Pino Silvestri, ucciso nel 2005 di fronte a un ristorante

Loredana ha 41 anni, ne festeggiava 40 la notte in cui il marito, Pino Silvestri, è stato ucciso all’uscita di un ristorante alla Magliana per una questione di parcheggio. Era la sera del 5 novembre 2005. La coppia era con i figli di 11 e 8 anni al «Re per una notte» per brindare assieme a parenti e amici. Poco prima di mettersi a tavola litiga con Luciano Calisti, 32 anni, che torna a mezzanotte spalleggiato dal fratello, dal nipote e da due amici. Il commando è armato di tubi di ferro, spranghe, bullock. Spunta fuori anche una pistola. Pino viene ferito prima a una gamba, s’accascia a terra. Poi il colpo mortale che gli trafigge cuore e polmoni. Morirà sotto gli occhi del figlio più grande, nascosto dietro a una fioriera. Da domani si celebra il processo d’appello per i cinque per cui in primo grado sono stati chiesti dai 15 ai 18 anni di reclusione. In due, Andrea Calisti e Alessandro Ciriaci, sono già ai domiciliari.
Loredana, che cosa si aspetta da questo processo?
«Quantomeno la conferma della sentenza. La nostra vita è stata stravolta. Pino era un uomo e un padre meraviglioso, aveva diritto di vivere e i miei figli di crescere con lui. In prima battuta il giudice non ha riconosciuto la premeditazione, escludendo il dolo volontario. Mi chiedo se coprire le targhe con lo scotch, organizzare un’imboscata con spranghe e pistola, premere il grilletto a sangue freddo, alle spalle, contro un uomo ferito, non siano gesti premeditati. Di cinque uomini adulti, a nessuno è venuto in mente che quello che stavano facendo era una follia. Tant’è che nessuno è stato giudicato incapace di intendere e di volere».
Che cosa ricorda di quella sera?
«Gli occhi spalancati e ormai senza più espressione di mio marito. Quando l’ho conosciuto nel 1984, incrociai il suo sguardo e fu un colpo di fulmine. Da allora non ci siamo più separati. Ecco, a quegli occhi hanno tolto la vita. Non lo scorderò mai».
Ma la vita continua.
«Quando succedono fatti del genere, tutto si esaurisce a caldo. Si è come risucchiati da un ciclone, il tempo passa, s’avvia lenta la macchina giudiziaria, chi ti era vicino torna alle sue cose. Tu, invece, resti lì col tuo niente in mano. Chi è dall’altra parte si appella ai suoi diritti: rito abbreviato, appello, attenuanti. E tu ti chiedi: ma Pino, i miei figli, io, che diritto abbiamo? Pino aveva il diritto alla vita. Gli è stato negato. Il giorno dopo il suo omicidio, è morto per crepacuore il compagno di mia suocera. E per questo lutto chi paga? Ma tutto questo in un’aula di tribunale passa in secondo piano».
Andrea Calisti le ha scritto una lettera, chiedeva perdono.
«Sono molto cattolica, eppure non riesco a perdonare. Quella lettera non l’ho voluta nemmeno leggere. D’altronde lo stesso pm scrisse agli atti che l’unico interesse di quell’uomo era alleggerire la sua posizione giudiziaria».
Ha un desiderio?
«Mettermi in contatto con altre famiglie che hanno subito una tragedia simile. Ho parlato per esempio con la mamma di Nello Caprantini, il ragazzo che venne ucciso all’uscita di una discoteca per un litigio.

Vorrei mettere insieme le nostre forze per rendere più sensibile la macchina giudiziaria al dramma umano che c’è dietro a perdita di queste persone; gente per bene, onesta, contro cui a un certo punto esaltati decidono di pronunciare una condanna a morte».

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