Si apre con un incendio Harvest, di Athina Rachel Tsangari, ieri in concorso alla Mostra, e con un incendio si chiude. Perché sia stato appiccato il primo, incuria, leggerezza, ubriachezza, non è chiaro e al posto dei veri colpevoli ne faranno le spese tre figure di passaggio, due uomini e una donna. Perché una settimana dopo, nel tempo cronologico del film, due ore e passa di pellicola sullo schermo, il fuoco divampi di nuovo, neppure. Il piromane potrebbe essere l'ultimo abitante di quel villaggio, che intanto si è spopolato, e che però dovrebbe essere rimato lì in qualità di testimone custode, protettore, fate voi. Si potrebbe anche suggerire che non sapendo bene come chiudere, la regista abbia pensato che un bel fuoco purificatore avrebbe spazzato via ogni dubbio residuo; oppure il fuoco potrebbe essere letto come il controcanto e/o il rovesciamento di un omicidio avvenuto a tre quarti della storia e che ha visto un cartografo di colore annegare nell'orina che una donna-strega, oppure angelo vendicatore, e comunque elemento femminile di quel terzetto di estranei ritenuti responsabili dell'incendio, gli ha riversato in bocca, stando su di lui accovacciata e tenendolo inchiodato al suolo, una sorta di cunnilingus in forma di golden shower. Da notare che questo annegamento viene subito dopo il taglio della lingua, a opera di una contadina, ai danni di un «bravo» locale che incautamente andava pavoneggiandosi nel villaggio. Esausti, nel frattempo, e con il favore del buio, molti spettatori hanno abbandonato la sala di proiezione, lasciando agli impavidi rimasti il compito di verificare se Harvest, ovvero il raccolto, sarà pur raccolto da qualcuno. La risposta è negativa.
Ambientato in un'epoca imprecisa, ma che alcuni ben informati legano alla fine del XVI secolo, il film, tratto da un romanzo con lo stesso titolo, ma finora rimasto inedito, grazie a Dio, in Italia, racconta di una comunità rurale inglese in cui la rivoluzione agricola non ha ancora preso il via, i terreni sono ancora collettivi e se ci sono proprietari terrieri non c'è ancora una legge vera e propria a sancirne gli onori e gli oneri. Qui è un certo Mr Kent a guidare il tutto, e il suo amico Walter Thirsk, la cui madre è stata balia di entrambi, a fargli da braccio destro: sono tutti e due uomini di città, sanno leggere e scrivere, anche se Walter, per come si veste e si muove, sembra più un troglodita che un erudito. Poiché le terre appartengono alla moglie di Kent, una volta che quest'ultima muore è un suo parente a ereditarle e a decidere come farle fruttare nel futuro. La scelta di quest'ultimo è di cacciare gli agricoltori e di preferire in toto i pastori.
Secondo la regista, Harvest è un film che racconta «il trauma della modernità» e insieme «l'invasione del mondo esterno: il cartografo, il migrante e l'uomo d'affari, tutti archetipi di cambiamenti sconvolgenti». Pur non essendo dei fanatici della modernità, bisogna dire che la ruralità descritta in Harvest è talmente vicina alla pura e semplice animalità da non versare lacrime sulla sua scomparsa. «Come possiamo salvare il suolo, il sé, all'interno dei beni comuni?» si chiede ancora la regista: una risposta potrebbe essere cercando di non fare brutti film.
Erano circa quindici anni che Athina Rachel Tsangari non veniva a
Venezia. Allora, con Attenberg, Ariane Lebed vinse la Coppa Volpi come migliore attrice. Se questo intervallo di tempo verrà mantenuto per il futuro, per quello che ragionevolmente possiamo prevedere per noi, siamo salvi.
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