Helmand, la provincia dove anche i militari trattano con i talebani

«Il negoziato qui è solo questione di tempo, non certo di principio». L’ultimo a dirlo - a gennaio - non è stato Gino Strada, ma il comandante dell’esercito britannico generale sir David Richard spiegando l’inevitabilità - per chi opera nella provincia di Helmand - di negoziare con i talebani. Detto questo, c’è modo e modo di trattare. Emergency - grazie alla disinvoltura con cui mescola spregiudicate attività di denuncia politica e lodevole attività sanitaria – offre più di un pretesto a quanti definiscono autentica collusione i suoi rapporti con i talebani. Certo a Helmand i contatti con gli insorti sono assolutamente all’ordine del giorno. In quella provincia, considerata il cuore della produzione di oppio, non arriva fino al 2006 un solo soldato della Nato. Approfittando di quell’assenza i talebani la trasformano nel trampolino per il ritorno nel Paese.
Le ragioni della scelta sono evidenti. Dopo la sconfitta del 2001 il mullah Omar e quel che resta della dirigenza talebana si riorganizzano intorno alla città pakistana di Quetta, appena a sud del confine con Helmand. A Quetta continua a riunirsi, da allora, la shura (assemblea) talebana che decide le campagne militari e manovra i traffici di droga e armi. E visto che l’oppio è fondamentale per i rifornimenti di armi Helmand diventa il vero Bengodi talebano. Nel 2006 70mila dei 165mila ettari di terreno coltivati a oppio di tutto l’Afghanistan si trovano in quella provincia. «Il raccolto da record di Helmand - scrive quell’anno il Guardian - evidenzia il fallimento delle politiche anti-narcotici occidentali costate due miliardi di dollari dal 2002».
La conformazione della provincia, un dito oblungo che dalla frontiera pakistana raggiunge il cuore dell’Afghanistan, è fondamentale anche per infiltrare armi e uomini nel Paese. Grazie a tutto ciò Helmand diventa il santuario della rinascita talebana. Lì nel 2006 gli insorti scannano 85 maestri e studenti e bruciano 187 scuole. Lì l’anno successivo viene tenuto prigioniero il giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo e vengono sgozzati i suoi collaboratori afghani. In quel caposaldo integralista tutti, dall’ultimo coltivatore d’oppio fino ai più importanti capi tribù, sono legati ai talebani e ai loro traffici. Sher Mohammed Akhundzada, il governatore responsabile della provincia fino a quando gli inglesi non ne pretendono le dimissioni, non fa differenza. Amico e alleato del presidente Karzai fin dai tempi dell’invasione sovietica il governatore è un temibile signore della guerra coinvolto nel traffico d’oppio e in decine di sanguinose faide e vendette. Ma è anche il perfetto capo tribù afghano, un leader corrotto e spregiudicato pronto a combattere i talebani con i loro stessi sistemi e a negoziare con loro ruoli e competenze territoriali. Così quando nel 2006 i soldati inglesi della Nato sbarcano nel nord la situazione si rivela completamente fuori controllo.
Il tentativo di assumere il controllo della provincia con la forza si dimostra inutile e costa ai britannici 270 morti in quattro anni di duri combattimenti. Neppure la poderosa doppia offensiva lanciata grazie all’intervento dai marines nel 2008 e nel 2009 riesce a garantire il controllo della provincia. «Questo è un territorio impossibile, dove fino a quando non ti sparano addosso non sai mai quali siano gli amici e quali i nemici», mi spiegava nel 2008 il capitano Sean Dynan al comando di una compagnia di marines impegnata nel sud di Helmand.

E gli ufficiali britannici, come il colonnello Alan Richmond comandante di un’unità nel distretto di Garmsir, sono i primi ad ammettere che i contatti con i talebani sono assolutamente all’ordine del giorno. «Nelle shure di villaggio a cui ho partecipato c’erano sicuramente dei talebani, sono sicuro - ricordava il colonnello in un’intervista - di essermi seduto accanto a loro più di una volta».

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